NICOLA RINITI (COLA ‘U RRINCIU) NEL RICORDO DI CARMELO CORDIANI
Nell’ultimo periodo della sua vita il prof. Carmelino Cordiani, spesso, a tarda sera faceva delle lunghe chiacchierate con me tramite chat: parlavamo di tutto, soprattutto dei suoi scritti. Tempo addietro è stato proprio il figlio Domenico, che mi ha detto di ricordare quando la sera rientrava tardi e, cosa insolita, vedeva il suo papà ancora sveglio e gli domandava il motivo. La risposta era sempre la stessa: “Stavo chiacchierando con Michele Scozzarra”. Si divertiva a “stuzzicarmi” il prof. Carmelino, magari chiedendomi un commento a qualche suo scritto: qualcuno l’ho già pubblicato in questa mia pagina, altri due o tre li pubblicherò nei prossimi mesi. Soltanto per un articolo sono stato io a chiamarlo… per dirgli che, nella sua semplicità, vedevo in quello scritto una piccola “perla”: mi riferisco all’articolo per la morte di Nicola Riniti (Cola ‘u Rrinciu). In quella piccola riflessione sulla morte di Nicola, emerge chiaramente come il prof. Carmelino Cordiani non ha scritto per cercare di “spiegare” quello che lui reputava fosse stata la vita di Nicola, ma per rivelare la trama segreta che lega ognuno di noi alla vita e al suo destino, per scoprirne l’essenza di cui siamo fatti e raggiungere quel “cuore del cuore” che solo in Dio trova risposta e significato. (Michele Scozzarra)
MORIU COLA ‘U RRINCIU di Carmelo Cordiani
Riniti Nicola, all’anagrafe. Cola ‘u rrinciu per i galatresi. Un nomignolo, non un’ingiuria, che non è consentito appioppare un’ingiuria a chi ha lavorato una vita intera. Lavorato la terra, con la zappa, sempre, sotto il solleone, sotto l’acqua, col freddo. Si è spento come un lumicino che esaurisce l’olio. Curvo, con un manico di scopa per bastone, si è recato nei campi fino a qualche mese fa. Poi non ce l’ha fatta più. Una banale influenza l’ha fermato, iniziando velocemente il conto alla rovescia. Poche persone al suo funerale: quelle che partecipano per onorare il morto e non per far coda ai parenti in pena, dietro la cassa. Cola non aveva famiglia. Non c’era alcuno. I pochi parenti, impegnati altrove, non sono venuti. Solo amici conoscenti, compaesani, come compaesani sono stati quelli che si sono occupati di lui, della sua vecchiaia. Quand’era giovane ha dormito in una tana scavata nel tufo. “Questi è uno dei puri di cui parla il Vangelo”, ha detto il prete durante le esequie in chiesa.
Proprio così. Esistono i puri; si trovano anche nella nostra società in cui di puro non c’è rimasto niente. Sono sempre le persone semplici, venute al mondo senza volerlo, vissute senza domandarsi troppi “perché”?, senza contestare, imprecare, accettando il bello ed il brutto, godendo di quel poco che la vita concede. Scapolo. La vita non gli ha dato l’amore di una donna: un’illusione in cui, qualche volta è caduto, ma solo come esca perché dissodasse più a fondo la terra. Una promessa di amore in cambio della fatica, per ricominciare ogni volta. Alle feste suonava il tamburo in testa alle processioni. Un berretto bianco con visiera, le mani incallite ed inesperte riuscivano a ritmare il classico rumore della circostanza. L’unica occasione da protagonista. Poi spariva e la sua giornata, dall’alba al tramonto, ritornava la stessa, senza orario. Intorno alla cassa, ancora scoperta, siamo passati tutti per l’estremo saluto. Cola era diventato più piccolo, nel lenzuolo bianco. Le mani incallite erano coperte da guanti bianchi tra le dita una corona nera del Rosario. Ai piedi un paio di scarpe nuove: le uniche, nuove, da quando era nato.
“Il nuovo Provinciale”, 25/31 Maggio 1991