LA QUARESIMA TRA “CAMMARO” E “SCAMMARO”
Nella liturgia cattolica, la Quaresima è quel periodo che va da Mercoledì delle Ceneri al Sabato Santo, accompagna i credenti dal Carnevale alla Pasqua. La tradizione di non mangiare carne nei venerdì di Quaresima va ricondotta all’Antico Testamento, astenersi dalla carne era un modo simbolico per “rinunciare” a qualcosa che piace e soddisfa, dimostrando la capacità dell’uomo di tenere a bada i propri istinti. La carne, infatti, sin dal Medioevo, è intesa come un cibo in antitesi con il clima austero e rigoroso che si deve creare durante la Quaresima. Nella concezione cristiana il tempo della Quaresima viene considerato come un aiuto all’uomo ad elevarsi verso Dio, soprattutto quando dopo gli “eccessi del Carnevale” è necessario purificarsi in vista della rinascita di Pasqua. Anche le celebrazioni nelle Chiese, in questi 40 giorni, sono più discrete: gli altari non si dovrebbero decorare, i matrimoni non dovrebbero essere celebrati, i canti del Gloria e dell’Alleluja vengono sospesi.
Quante volte nelle nostre case, con i parenti più anziani, abbiamo sentito il termine dialettale, ormai in disuso, “cammarari”, che sta a significare il mangiare carne nella Quaresima e negli altri giorni in cui la Chiesa prescrive l’astinenza. Pare che questo termine sia nato in ambito monastico. Durante il periodo di Quaresima, i Monaci erano obbligati a mangiare di magro. Nei monasteri, però, alcuni di loro per motivi di salute potevano derogare, ma dovevano farlo da soli nella propria camera, per non farsi vedere dagli altri. Per questo mangiare in camera (cammarare), assunse così il significato di consumare carne. Il suo opposto, invece, (scammarare), termine oggi a molti completamente sconosciuto, vuol dire mangiare di magro e anche ritenersi libero dagli impegni assunti di non mangiare carne. Piatto tipico di questo “scammarari” sono i “vermicelli di scammaro”: una ricetta della cucina povera campana, un primo piatto facile da preparare. Il condimento di questa pasta è realizzato con olio insaporito con aglio, olive, acciughe salate, pinoli, peperoncino, uvetta e pangrattato. Sembra che il nome di questa antica ricetta nacque in ambito monastico.
Nel nostro Paese la presenza di elementi religiosi e di atteggiamenti legati al calendario cristiano ancora rimangono vivi e perseverano tra le generazioni, anche se, oggi, parlare di Quaresima e di mangiare “di magro” sembra un qualcosa che viene da un altro mondo, perché la società è cambiata profondamente e i precetti religiosi sono sempre meno osservati nella quotidianità dei nostri tempi. Secondo alcuni anche la Vigilia di Natale farebbe parte della “Quaresima di Natale” e sarebbe un giorno ‘di magro’, quindi non bisognerebbe mangiare la carne, anche se ormai è diventato il giorno del grande cenone. Ricordo che mia mamma mi parlava della vigilia di Natale come un giorno di digiuno e mi ripeteva sempre un vecchio detto ormai scomparso: “Cu si cammara vigilia i Natali, ‘u tterranu fora comu a nu cani”.
Quest’anno siamo stati costretti a vivere una Quaresima molto particolare, legata alle paure per il Coronavirus: possiamo dire che siamo stati portati a viverla in maniera sobria, rintanati nelle nostre abitazioni, proprio come “Corajisima”, la bambola di pezza rudimentale dalle origini molto remote, che faceva la sua comparsa sui balconi delle case il Mercoledì delle ceneri, proprio a significare che le baldorie per il Carnevale erano finite. Anche oggi, esporre la “Corajisima” significa fare proprie le restrizioni quaresimali, che in questo momento si materializzano con la necessità di stare a casa, sperando davvero che, al più presto, sia spazzato via il virus che sta sconvolgendo le nostre vite, e possiamo giungere ad una nuova Pasqua di gioia che ripaghi il nostro sacrificio, e ci dia un poco di meritata serenità.