MUSEO PARROCCHIALE: IDEA SEMPRE VALIDA — Umberto di Stilo —
Da anni ho il piacere di annoverare tra i miei amici l’avv. Michele Scozzarra, professionista di vasta cultura che da sempre, oltre ad essere mio gradito interlocutore nelle conversazioni serali, è anche mio attento lettore. Attento perchè non si ferma in modo sbrigativo ed affrettato ai contenuti dei miei scritti ma va sempre alla ricerca di approfondimenti. Soprattutto quando si trova a leggere notizie relative alla storia sociale e religiosa di Galatro, paese che ad entrambi ha dato i natali e del quale coi miei libri ho sempre cercato di ricostruire la millenaria storia. L’altra sera, nel corso di una delle sue gradite periodiche visite, spaziando, come è nostra abitudine, sulla secolare storia sociale e religiosa di Galatro, mi ha chiesto maggiori chiarimenti sul valore storico e sulla provenienza dei settecenteschi paramenti liturgici appartenuti a don Bruno Godano che presentano l’assoluta rarità di avere ricamato in bella evidenza il triregno, insegna che compete solo ai paramenti papali. Di quei paramenti ho scritto ampiamente sia nel volume “Il cinquecentesco trittico…” che, nel recentissimo volume “La chiesa parrocchiale san Nicola” ed in entrambe le pubblicazioni mi sono soffermato a ricostruire il mio fortuito salvataggio di quegli antichi indumenti liturgici. La richiesta dell’amico avvocato, ha fatto sì che nella speranza di dargli una esauriente risposta, non solo gli ricordassi come e in che modo sono venuto a conoscenza di quei paramenti ma, consapevole del valore di testimonianza storica che essi rivestono, come a suo tempo avessi pensato di proteggerli dall’incuria del tempo e, contemporaneamente, di tutelare la loro conoscenza “a futura memoria”.
E iniziai il racconto che, sin da subito ha avuto la forza di tenere desta l’attenzione dell’amico interlocutore. Ricordai, infatti, che a metà degli anni ottanta, nell’archivio storico diocesano di Mileto ho trovato un messaggio scritto su mezza pagina di quaderno con il quale il parroco don Bruno Antonio Marazzita in forma amichevole sollecitava il vicario diocesano a restituire il calice d’argento e i paramenti settecenteschi che aveva fornito per l’allestimento della mostra di arredi storici e pregiati che, organizzata dalla Curia, nel 1937 si era tenuta nei locali del vescovado. L’occasionale lettura di quel biglietto, spiegazzato e scolorito, ha suscitato in me un impulso di nuovo interesse, al punto che il pomeriggio del giorno successivo, sapendo di trovare aperta la parrocchiale, mi affrettai a raggiungerla e a suor Elena che, insieme ad alcune parrocchiane, era impegnata a disporre i fiori sull’altare, chiesi la cortesia di accompagnarmi in sacrestia per cercare nell’armadio dei paramenti quelli antichi della cui esistenza avevo saputo a Mileto. Non avevo ancora ultimato la sommaria presumibile descrizione che la suora, tornando sui suoi passi mi fece notare un sacco che era stato accantonato in un angolo e mi invitò a controllare il suo contenuto perché qualche giorno prima, insieme a suor Ginetta, aveva provveduto a destinare ai rifiuti diversi paramenti che, scoloriti e sporchi, da decenni erano stati accantonati e messi fuori uso. Aprii il sacco e, insieme alle insegne della confraternita e ad altra vecchia biancheria, vi trovai proprio quei paramenti che il buon Marazzita, ultimo parroco ad averli indossati, aveva sollecitato la Curia a restituirli. Soddisfatto del fortunato “salvataggio” io stesso provvidi a riporli in un nuovo contenitore di cartone che riuscii a procurare in una famiglia vicina e, su suggerimento della suora, lo sistemai nell’armadio della sacrestia. Quella stessa sera ne parlai al parroco don Agostino Giovinazzo che, con estrema sincerità mi confidò di non averli mai visti perché qualcuno dei suoi predecessori li aveva riposti nell’angolo remoto del guardaroba destinato a contenere i paramenti in disuso. In quella stessa occasione gli dissi che, a mio giudizio, sarebbe stato opportuno far conoscere ai fedeli quegli interessanti paramenti come testimonianza storica ed artistica dell’antica dotazione di indumenti liturgici della chiesa galatrese. A tal fine ritenemmo fosse necessaria la creazione di un piccolo museo parrocchiale da ubicare nel salone annesso alla chiesa san Nicola.
L’idea del museo si consolidò quando, circa dieci anni dopo, nell’autunno del 1993, la dott.ssa Giovanna Famularo, per conto della Soprintendenza ai beni artistici della Calabria, venne a Galatro insieme a due suoi giovani collaboratori e un fotografo per procedere all’inventario e catalogazione dei beni presenti nelle chiese locali. In quell’occasione, su delega del parroco don Giovinazzo, ebbi il piacere di accompagnare la funzionaria con l’incarico di esserle da supporto storico in tutti i tre giorni di sua permanenza a Galatro e, ove fosse stato necessario, agevolare il suo paziente ed attento lavoro. In quella circostanza dagli armadietti delle sacrestie sono stati tirati fuori impolverati calici antichi ed altri vasi sacri che da decenni nessun parroco aveva provveduto a farli conoscere ai fedeli mediante il loro utilizzo nelle varie funzioni liturgiche perché ritenuti antiquati e, in qualche caso, deteriorati dal tempo. Dall’armadio e dai tiretti del comò delle tre chiese sono state riportate alla luce anche alcune diecine di paramenti sacri completi, molti dei quali di grande pregio artistico e storico. Tra gli altri anche quelli precedentemente “salvati” dai rifiuti che a datare dal 1731 erano appartenuti a don Bruno Godano e che, insieme ai ricchi ricami floreali in seta colorata e filo dorato, sono impreziositi anche del triregno papale. Una assoluta rarità per paramenti appartenuti ad un sacerdote di una periferica parrocchia di provincia. Rarità che conferisce a quei paramenti (un piviale, una pianeta, due tonacelle e tre manipoli) maggiore interesse e valore storico. C’è da notare che Alfonso Frangipane questi paramenti li aveva inseriti nel 2° volume dell’“Inventario degli oggetti d’arte d’Italia: Calabria” che nel 1933 era stato pubblicato dalla Libreria dello Stato e che, pertanto erano già entrati a far parte di un patrimonio storico di interesse nazionale.
Nei giorni immediatamente successivi alla catalogazione, davanti a tutti quei beni che documentavano concretamente la significativa dotazione delle chiese galatresi e di ciò che quei paramenti e vasi sacri rappresentavano per la religiosità popolare locale, con don Agostino ci siamo resi conto che quanto era stato inventariato – e che era diventato patrimonio artistico tutelato dalla Soprintendenza e, in conseguenza registrato anche dall’Ufficio diocesano per i beni culturali ed ecclesiastici – non poteva continuare a rimanere sparso ed ignorato nelle tre chiese della parrocchia ma meritava necessariamente di essere riunito e custodito in un unico luogo. E pensammo che, unitamente a ciò che era stato acquistato successivamente, l’esposizione in un museo di tutto ciò che era stato recuperato dalle macerie delle 13 chiese distrutte dal terrificante “flagello” del 5 febbraio 1783 e che era sconosciuto ai più, sarebbe risultata utile ai fedeli come concreta testimonianza del gusto artistico e del grado di civiltà che le precedenti generazioni di galatresi avevano raggiunto nei secoli passati. Il sito precedentemente individuato ci è parso ancora idoneo non solo per le sue dimensioni ma, soprattutto, perché essendo al centro del paese, nelle immediate adiacenze del palazzo comunale e della piazza principale, sarebbe stato più comodo da raggiungere.
L’idea del museo ci è parsa realizzabile anche in breve tempo. Pensavamo, infatti, di riuscire a reperire le somme necessarie per acquistare un adeguato numero di bacheche, da fissare alle pareti, nelle quali esporre alcuni significativi paramenti, e di vetrinette nelle quali disporre in bella mostra tutti i vasi sacri. Ma c’era da fare i conti con l’ammontare della spesa che pensavamo fosse così irrisoria da poterla reperire mediante le volontarie offerte dei fedeli e con i contributi che avremmo ottenuto dal Comune e dalla Curia. Immaginammo che era giunto il momento di salvare dal mondo dell’oblio quanto per decenni era stato accantonato in remoti angoli delle sacrestie dai parroci che si erano avvicendati negli anni. Non si poteva continuare a rimanere indifferenti di fronte al calice in argento sbalzato del 1612 proveniente dalla basilicale chiesa di Santa Maria della Valle o a quello, anch’esso antico (sicuramente della seconda metà del seicento) e ricco di lavori al cesello che nel 1713, a proprie spese, è stato fatto restaurare e indorare dal clerico congregato Giuseppe Macedonio che, originario di Cinquefrondi, a Galatro aveva molteplici interessi. E poi c’era la pisside in argento dorato e bulinato del 1644 proveniente dalla chiesa di Santa Maria della Valle, la navicella portaincenso e il turibolo, opere ottocentesche entrambe in argento realizzate da un artista napoletano e, ancora, il settecentesco ostensorio in argento raggiato e bulinato realizzato da un argentiere napoletano e punzonato dalla zecca nell’anno 1771. Fino ad arrivare al calice (non inventariato) che nel 1962 i fedeli hanno offerto al parroco don Bruno Scoleri nella ricorrenza del suo 25° anniversario di ordinazione sacerdotale e che recentemente i suoi eredi lo hanno consegnato alla chiesa perché lo custodisse insieme agli altri suoi calici.
Mi sono limitato a ricordare soltanto alcuni dei “vasi sacri” che documentano il grado di civiltà e di agiatezza delle nostre chiese ma molti altri, regolarmente inventariati, meritano ugualmente di essere conosciuti. Non fosse altro che per avere diretta cognizione delle pregevoli dotazioni liturgiche di cui erano corredate le nostre chiese. Ci sono, poi, innumerevoli paramenti. Uno su tutti quello settecentesco già ricordato che ha in bell’evidenza il triregno papale e la data del 1731 che per molti decenni i fedeli hanno conosciuto con la denominazione distintiva di “u paratu ’i Natali” perché il parroco lo indossava nella festività del Natale e in quella del Corpus Domini. Cioè nelle ricorrenze più solenni dell’anno liturgico. Era nostro desiderio “salvare dall’incuria” anche il settecentesco mezzo busto ligneo di san Pasquale e quello, anch’esso molto antico ma in carta pesta e gesso, di San Biagio. Il progetto naufragò nel volgere di pochi mesi. Non solo perché da un primo sommario preventivo la cifra necessaria per la realizzazione del museo risultò elevata, ma soprattutto perché don Agostino, preso dai gravosi impegni derivanti dagli incarichi che aveva in Curia e dalla contemporanea gestione delle due ex parrocchie locali non ebbe più il tempo da dedicare all’avvio delle necessarie pratiche. L’idea del museo, come sicura salvaguardia della testimonianza dei beni artistici che nei decenni passati costituivano il patrimonio delle chiese esistenti sul territorio galatrese, piacque anche a diversi cittadini coi quali ne avevamo parlato, ma a tutt’oggi non si è fatto nulla.
Fin qui il racconto, più o meno ragguagliato di un fortuito salvataggio e ritrovamento di alcuni paramenti liturgici e del successivo inventario che ha dato origine ad altre importanti scoperte del patrimonio artistico esistente nelle chiese locali. Racconto che ha suscitato subito commenti e positive considerazioni anche da parte dell’amico avv. Scozzarra che aveva creato l’occasione per farmi rivivere idealmente i momenti di febbrile entusiasmo per la possibile creazione del museo parrocchiale, il cui progetto -a ben pensare- è sempre valido e continuerà ad esserlo fino a quando non ci saranno uomini di buona volontà e istituzioni che troveranno il modo ed i mezzi per realizzarlo. La chiesa di Galatro, come poche altre della nostra zona, vanta una ricca e varia testimonianza del patrimonio di arredi sacri posseduti in passato. Anche per questo il museo programmato alcuni decenni addietro, è sempre fattibile e come tale meritevole di particolare attenzione. Solo se, prima o poi, verrà realizzato non andrà a fare pariglia con il “museo della civiltà artigiana e contadina di Galatro” la cui creazione sin dai primi anni ottanta mi premurai di proporre ai vari sindaci che si sono succeduti nell’ultimo quarantennio ma che, dopo anni di pressioni e dopo essere riuscito a superare alcune difficoltà burocratiche, una passata amministrazione che inizialmente si mostrava entusiasta dell’iniziativa, pur avendo avuto ed utilizzato un primo iniziale apposito finanziamento regionale, ha deciso di abbandonare l’idea del museo nonostante l’ufficio tecnico comunale avesse provveduto a individuare la localizzazione e a predisporre il necessario progetto di massima. Ed è triste constatare come, nonostante la scolarizzazione di massa e il grado di cultura della comunità sia notevolmente cresciuto, man mano che passano gli anni, diventa sempre più palpabile il generale disinteresse verso gli aspetti storici, culturali ed antropologici del paese nella convinzione che è più che sufficiente la conoscenza dell’oggi perché quella del passato, anche mediante le concrete testimonianze esposte in un museo, serve poco. Convinzione che, per quanti hanno sempre creduto nella validità della storia come cammino di civiltà e di cultura ed hanno guardato alla salvaguardia delle testimonianze del passato, è quanto mai mortificante.