11 FEBBRAIO GIORNATA DEL MALATO: SPERARE, CURARE E GUARIRE

Ogni anno, l’11 febbraio, il mondo si ferma per riflettere su un tema universale, la malattia. Tutti, prima o poi, ci troviamo a fare i conti con la fragilità del corpo e la paura del dolore. Ma questa giornata non è solo un momento di consapevolezza, è un messaggio di speranza, di vicinanza e di amore. Istituita nel 1992 da Papa Giovanni Paolo II, la Giornata Mondiale del Malato ci invita a guardare oltre la sofferenza, a riscoprire il valore della cura, non solo medica ma anche umana. Non è un caso che si celebri l’11 febbraio, il giorno in cui si ricorda la Beata Vergine di Lourdes, simbolo di guarigione e conforto spirituale. Più di una volta sono stato invitato a qualche convegno, non per parlare della medicina in sé, ma di come la medicina è sempre stata legata a doppio filo con l’immagine di salute, fin dai tempi antichi, non solo nella trattatistica specializzata, giocando su alcuni binomi, la vita è fatta di questi binomi, che ogni tanto diventano antinomie e paradossi e sfidano l’esperienza, ma spesso stridono come “curare e guarire”, ma potremmo anche dire “salute e salvezza, scienza e arte, persona e individuo, corpo e anima”.

L’uomo vive una condizione che Pascal definisce “di un re decaduto”, desidera durare, star bene per sempre e in eterno, invece deve fare i conti con il limite. Limite che è dentro la condizione strutturale dell’uomo. Jean Philip Passal scrive: “Si potrebbe immaginare la vita dell’uomo senza malattia e senza morte?”. I miti dell’antichità ci descrivono bene questa situazione. Uno è quello di Icaro, un mito ambivalente: Icaro aveva avuto le ali fatte dal padre Dedalo e vuole volare più in alto di quello per cui le ali erano progettate, così che la cera si scioglie e cade. Quello che questo mito ci dice è che l’uomo strutturalmente è desiderio (la parola desiderio ha dentro il nome sideros che sono le stelle), l’uomo vuole stare bene, vorrebbe durare in eterno e si trova invece a scontrarsi con una realtà che è la morte e con un anticipo di questo, la malattia, che gli dice che questo non è possibile. Il dramma viene da questo paradosso, di volere e di non potere. Così la grandezza dell’uomo che vuole la totalità, potrebbe essere interpretata nello stesso tempo come presunzione, oppure la ferita mortale, quando crolla da queste stelle (il disastro è un’altra parola che ha dentro il termine astro), può diventare la condizione che non consente la compassione o la punizione per la sua arroganza. Matisse ci fa vedere Icaro non quando cade ma quando vuole andare verso l’alto, verso le stelle: la sagoma è nera, ma dentro di lui palpita un cuore rosso.

Come per l’Ulisse dantesco, voler superare le Colonne d’Ercole con strumenti inadeguati, la barchetta “picciola”, o voler andare troppo in là, rispetto a come un architetto aveva progettato le ali per quell’uomo, è grandezza e presunzione insieme, a meno che la grandezza non diventi il grido dell’uomo, dignitoso, di chi domanda di essere salvato da Colui che gli ha messo dentro questo desiderio che non è possibile soddisfare con le proprie forze. La cura dei malati inizia così: per la compassione dell’umano di chi sa di condividerne lo stesso destino, lo stesso desiderio e lo stesso limite. Chagall ci fa vedere un Icaro che non è ridicolizzato e che mentre cade, ancora volteggiando nell’aria, è avvolto da un popolo che capisce che in questo angelo decaduto c’è l’immagine di se stesso. L’uomo nella domanda di salute chiede di stare bene, di durare, che sia dato compimento al suo desiderio, cioè chiede la salvezza: gli uomini che vanno alle esequie dei santi (basta citare Lourdes, Fatima, Padre Pio, Polsi, Assisi…) fra questa umanità c’è sempre un’umanità sofferente e malata, a volte che torna indietro miracolata. In questo senso l’arte nasce proprio all’alba di quest’avventura umana, con l’urgenza di contribuire alla conoscenza umana, quindi con l’urgenza non solo di rappresentarla, ma di affermarla, l’arte non rappresenta il visibile, l’arte lo rende visibile.

A questo livello è ben visibile il rapporto c’è tra l’arte e la medicina? La medicina accetta, storicamente parlando, di compromettersi con due dimensioni dell’uomo: la magia e la scienza. La medicina, che noi accettiamo, ha scelto di raccogliere la dottrina di Ippocrate e dunque di Galeno, che è colui che ha tradotto il corpus Ippocraticum, riconoscendogli un atteggiamento scientifico e con questo decretando la definitiva esclusione della magia. Questo è stato possibile anche grazie al grandissimo strumento ideato nel Medioevo. Le grandi invenzioni di questi secoli, cosiddetti “bui”, sono stati gli ospedali, da una parte, e le università, dall’altra. (Università, contiene la parola unum, l’idea che la verità e la conoscenza è una sola). Il Medioevo ha incominciato ha capire che era necessario un luogo in cui la conoscenza potesse esercitarsi in modo sistematico come atteggiamento culturale ed educativo. Ippocrate si distingue dai miti pre-ippocratici, perché lui per la prima volta introduce un atteggiamento scientifico e si impegna di fronte agli dei, quindi con una posizione religiosa e non magica, a curare i malati al meglio delle proprie capacità anche da un punto di vista etico. Già in Ippocrate, il compito del medico comincia ad essere quello di guardare, di interpretare la realtà come segno, cioè riuscire ad entrare in rapporto con le l’uomo nella complessa realtà della malattia e della cura.
A volte questi malati ci guardano portando tutta la loro vita in un avvenimento, che può trattarsi anche di uno sguardo vuoto, che ha bisogno dell’osservatore per illuminarsi: con un occhio tu guardi dentro te stesso e con un occhio guardi dentro il mondo della malattia. Questa doppia dimensione, che partendo dal profondo del bisogno di sé può interrogare tutto l’universo, alla ricerca di un rapporto, è l’aspetto provocatorio che all’uomo è dato, dentro la propria condizione di dolore e che non lascia indifferente chi sa raccogliere questo sguardo. Questo è il punto sorgivo dell’interesse per prendersi cura dell’altro.
