A PLAESANO, QUANDO IO ERO BAMBINA… di Ninetta Cutellè
Scrivere per rievocare il passato di un paese, significa saper usare una importante forma narrativa che descrive un contesto antico per renderlo vivo, per esprimere emozioni e stati d’animo che ricordano la vita di una comunità, che rimanda alle forme aggregative che oggi appaiono “magiche” ai membri che si stringono intorno a valori e legami sociali che, nel corso degli anni, hanno definito una specificità, una propria forma identitaria di una comunità. Quel paese, di cui mirabilmente scrive Ninetta Cutellè, è Plaesano, che è anche il paese più vicino alla mia Galatro e, per questo, tante cose raccontate, sono ricordate, non solo da me, come familiari, evocando sensazioni lontane. Le descrizioni di piccole storie, risuonano intime perché mimano i vari momenti della vita nei nostri paesi, lo scorrere spesso monotono delle ore, l’uniforme ripetitività dei comportamenti, dando voce al paese, scandendone i ritmi esistenziali. Il lettore viene introdotto in atmosfere, che riportano al passato, con lo sguardo dritto verso il lavoro quotidiano e la magia vissuta nei decenni passati. Erano tempi così sereni da colmare l’animo e i sensi, perché nella modalità di vita di quella comunità erano importanti i significati della vita materiale, che spesso erano accomunati dalla sofferenza e dal sacrificio. Basta leggere questo scritto di Ninetta Cutellè, per essere proiettati in atmosfere che sembrano ferme e, anche se il moto è evidente, si è proiettati in un vortice che, dal profondo dell’animo, ti porta alla memoria un qualcosa di magico, che richiama pagine di storia che, in un silenzioso e fecondo incanto, hanno reso grande la nostra terra. (michele scozzarra)
A PLAESANO, QUANDO IO ERO BAMBINA… di Ninetta Cutellè
A Plaesano, quando io ero bambina, il tempo era un concetto relativo e contestualizzato. Esistevano solo tre orari fondamentali della giornata, che ne regolavamo le azioni: quandu ‘njhiorna (l’alba), quandu scura (il tramonto) e menziornu (mezzogiorno).
Quandu ‘njhiornava, i braccianti erano già nei campi; le massaie, con una grande mularia (cioè con tanti figli), già impegnate nei lavori di casa e nella preparazione dei pasti. I bambini in età scolare davano una mano all’uno o all’altro genitore, a seconda del sesso: i maschi, nei campi col padre; le femmine, in casa con la madre. Poi, alle otto, si trasformavano tutti in alunni, col loro bel grembiulino, e si ritrovavano davanti alla scuola, lasciando i grandi a continuare le proprie attività. Il più del lavoro doveva essere svolto entro mezzogiorno, perché ‘a matinata faci ‘a jornata (la mattinata fa la giornata: se si fa molto al mattino, si ha da lavorare meno nel tempo successivo del giorno).
A Plaesano, quando io ero bambina, non esisteva il termine ‘pomeriggio’: si diceva ‘doppu menziornu’ (dopo mezzogiorno). Già alle undici e mezzo il paese cominciava a svuotarsi: i vecchi e i non lavoratori seduti al bar a giocare a carte, le donne in giro a sbrigare commissioni, i venditori ambulanti, i negozianti: tutti rientravano alle proprie case, perché a mezzogiorno in punto, non un minuto dopo, a Plaesano, si pranzava! Era questo il momento che divideva in due parti il giorno!
Già prima dell’una la gente era nuovamente fuori casa: chi tornava a giocare a carte, chi a passeggiare, chi alle proprie attività lavorative che si svolgevano in paese, e che, doppu menziornu, s’incrementavano col lavoro dei ragazzi i quali, dopo la scuola, jenu ‘o mastru’ (andavano ad imparare un mestiere). I bambini giocavano per strada, accompagnando col loro allegro vociare le donne che si riunivano in gruppi, di solito fra vicine: sedevano davanti all’uscio di casa di una di loro, e, assieme alle proprie figlie femmine, fra una chiacchiera e l’altra, praticavano le antiche arti del ricamo, dell’uncinetto, del chiacchierìno, nella lunga e paziente preparazione dei corredi da sposa. Il tempo trascorreva lentamente e si trascinava fino al tramonto.
A Plaesano, quando io ero bambina, prima che cominciasse ‘u scura’ tutte le attività cessavano; ognuno rientrava nella propria casa. La famiglia si riuniva. Si cenava e si andava presto a letto: bisognava riposarsi e recuperare energie, perché una nuova alba stava per arrivare…
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Ciao Michele carissimo.
Molto bella e interessante la tua prefazione, farcita di messaggi socio-culturali e reconditi significati.
Come pure trovo accorato, evocativo e completo nei dettagli il racconto di Ninetta. Aggiungo che ancor oggi a Plaesano alle 12 per il pranzo e alle 7 per la cena, la maggior parte delle persone (della pur poco popolosa cittadina) scompare dalle vie e dai ritrovi. Un’usanza, una tradizione che in qualche modo viene rispettata quasi come si trattasse di qualcosa di “sacro”. Come tale era anche l’usanza di aver a tavola ogni domenica (oltre chiaramente alle feste comandate) l’intera famiglia: figli, nipoti, pronipoti e nonni, tutt’assieme e in allegria. Ciò fin quando vi erano in vita i congiunti più anziani. Oggi se sussiste in qualche nucleo, ne rappresenta un caso piu unico che raro. Ma d’altronde, un po’ è così in quasi tutti i nostri piccoli centri.
Grazie.