DON PINO DEMASI: QUALE CHIESA PER L’UOMO DELLA PIANA
E’ da quando avevo i calzoni corti che ascolto discorsi e leggo articoli che auspicano la crescita e lo sviluppo della “Piana di Gioia Tauro”: un lembo di territorio che ha subito nel tempo processi di trasformazione, spesso tra loro contraddittori. “La Piana” questa appendice dell’Italia nella quale, con ritardi pesantissimi e con evidenti malumori, nel tempo si sono innescati dei meccanismi di sviluppo che hanno privilegiato solo quelle aree con una base economica solida. La Calabria non ha un piano di sviluppo regionale, è apparentemente abbandonata alle varie clientele dei gruppi di potere legati alla mafia: in pratica le viene fatto giocare il ruolo della Regione più povera e le iniziative avvengono con una lentezza esasperata. In questa nostra “periferia” si sono realizzate molte opere, anche di rilevante spesa pubblica, il più delle volte solo per un vantaggio degli imprenditori del “centro”, che non per un reale progetto di sviluppo della Piana. Chi vive nella Piana sperimenta direttamente l’emarginazione, principalmente culturale, ma anche politica, economica, sociale, esercitata dalla società che detiene il potere, che ci guarda come quel tipo di realtà economico-sociale a cui bisogna perennemente dare contributi, assistenza, occupazione, industrie e naturalmente “civilizzazione”.
Su questa emarginazione che vive la nostra Piana, tempo addietro ho avuto modo di ascoltare, durante un Convegno Diocesano, una grande lezione di particolare rilevanza e grande spessore sociale, umano ed ecclesiale, una importante “lectio magistralis” da parte di Mons. Giuseppe Demasi (da tutti conosciuto semplicemente, come è nel suo stile, come “don Pino”), referente di Libera per la Piana di Gioia Tauro e Parroco della comunità Santa Marina Vergine di Polistena, promotore della Cooperativa Valle del Marro-Libera Terra, che lavora sui terreni confiscati alla mafia: “La Piana di Gioia Tauro è terra di grandi contraddizioni che convivono una accanto all’altra, anche se troppo spesso sono le brutture ad avere maggiore risalto. Con i suoi 33 Comuni, e circa 170.000 abitanti distribuiti su di un territorio di 930 kmq, rappresenta un microcosmo ampio e significativo di una realtà economico–sociale ricca di complessità, novità e ritardi, ma che sostanzialmente manca di un progetto coeso in grado di imprimere un deciso sviluppo. Vive inoltre una emarginazione territoriale che rischia di aumentare sempre più oggi a causa della nascita della città metropolitana e di una impostazione della stessa sempre più reggiocentrica. L’esperienza dell’insediamento del Porto si è dimostrata anch’essa contraddittoria. Se da una parte i circa 2000 posti di lavoro iniziali ed i primi dati economici sul volume del traffico commerciale marittimo, facevano ben sperare; dall’altra parte si intuiva già che il porto non avrebbe potuto vivere a lungo poggiandosi sulla sola movimentazione delle merci, isolato ed avulso dal contesto territoriale. Le centinaia di operai disoccupati di oggi danno ragione purtroppo a quanti, come me, sostenevano e sostengono la necessità della polifunzionalità del porto”.
Dalle parole di don Pino, risulta chiaro che la Piana deve ridisegnare il proprio contorno spaziale e territoriale, tenendo ben presente quali sono i termini dei propri rapporti umani e commerciali sui quali scommettere il suo futuro: la Piana deve farsi valere per quello che è, non per quello che ha o non ha, perché parlare oggi della Piana, dove sta andando e cos’è il suo territorio, spesso porta ad azzardare immagini o linee di pensiero imprecise, indefinite, a volte del tutto sfuocate. E proprio a partire da questo, grande rilievo assumono le parole di don Pino sul “disagio” che vive l’uomo della Piana: “In questa situazione, c’è un termine che può caratterizzare la società della Piana, una parola che può ben descrivere sinteticamente il “vissuto” degli uomini e delle donne che vivono in questo territorio. Questo termine è “disagio”. L’uomo della Piana si trova al centro di forte tensioni che distruggono innanzitutto la sua umanità. Da una parte i tradizionali valori che formano ancora un certo substrato culturale e sociale; dall’altra un tenore di vita, spesso al di sopra delle proprie possibilità, che lo spinge ad una specie di sfrenato consumismo; i modelli sociali massmediali che indicano stili di vita in cui la libertà del singolo sembra essere slegata da ogni regola morale; gli stili di vita importati da altri ambienti che spesso sono in contrasto con i valori umani ereditati dai nostri padri; la mentalità mafiosa e violenta che in questo contesto di incertezza riesce a mantenere ben salde le proprie logiche fino a diventare la forma di regolazione sociale più efficace e più importante perfino di tutte le altre forme, anche quelle statuali; una situazione di precarietà economica e lavorativa; una politica che non riesce a realizzarsi come servizio al cittadino.
E’ precisamente il disagio di chi ha gli orizzonti chiusi e limitati al “qui e ora”, al vivere di ogni giorno, che non ha progettualità molto distante nel tempo. C’è una sorta di forte individualismo nel quale ciò che conta è vivere la propria vita, fare le proprie esperienze, giorno dopo giorno, come se l’uomo non fosse più capace di relazioni personali vere, non ci fosse una vera spiritualità, non ci fossero più valori e convinzioni su cui contare. L’uomo della Piana è un uomo che vive a metà, con una vita fortemente sbilanciata verso il soddisfacimento dei bisogni materiali ed immediati: e davanti a questa evidentissima povertà esistenziale si sforza, inutilmente, di colmare il proprio vuoto spirituale con esperienze estreme riguardo al suo apparire, alla cura della propria immagine. E’ lo stesso uomo diviso a metà che alcune volte cerca di reagire in modo più positivo, impegnandosi nell’ambito sociale e del volontariato, per poter riempire la sua esistenza di valori – se non esplicitamente cristiani – che fanno riferimento ai valori della persona umana, del suo rispetto e della sua promozione Anche nell’esperienza religiosa l’uomo della Piana vive questo disagio esistenziale. La fede è vista come ritualità, emozionalismo vuoto, devozionismo, tradizione da rispettare. Spesso è vissuta come esperienza fortemente individuale slegata da ogni logica evangelica ed ecclesiale, oppure anche come chiusura e dipendenza all’interno di esperienze di svariate forme di fondamentalismo. E’ questo l’uomo che la Chiesa di Oppido-Palmi ha davanti. E’ un uomo diviso, è un uomo solo, povero, è un uomo senza speranza, raccolto tutto sulla sua esperienza, nel tentativo di trovare pace e autentico senso di vita per se stesso”.
Bisogna anche dire che esiste un grande spessore umano, presente nella gente che vive nella Piana, che ha sperimentato, forse più di ogni altra in Italia, che cosa significhi essere senza patria, senza un focolare, dispersa su tutti i Continenti della terra, devastata dalla piaga della mafia e della ndrangheta. Nonostante tutto questo, dobbiamo dire che rappresenta un esempio, forse l’ultimo, di gente attaccata ai valori della vita: l’amicizia, l’ospitalità e l’accoglienza anche nelle case più povere, la pazienza impressionante con la quale ognuno attende la propria storia: “Se questo è l’uomo – continua don Pino – al quale dobbiamo fare riferimento, la prima cosa da capire è che quest’uomo non ha bisogno di tante parole, né di rimproveri, tanto meno di lezioni. Ha bisogno di gesti concreti, primo fra tutti l’accoglienza della sua povertà. Scaturisce da qui un impegno fondamentale: la scelta delle relazioni. La cura delle relazioni è un campo nel quale ogni comunità deve sentirsi impegnata in prima linea ed in tutte le modalità: amicali, affettive, familiari, comunitarie, civili e sociali, lavorative e politiche. La relazione è l’evento che educa e guarisce, è il luogo in cui radica la speranza. La relazione è anche caratterizzante lo sforzo di preservare e rilanciare, seppur in forme nuove, la natura popolare della Chiesa, in particolare attraverso Parrocchie missionarie. Vicino alle case di persone diverse per età, cultura, fede, la Parrocchia è chiamata a farsi laboratorio di relazioni che aiuta i singoli e le comunità a costruire legami, tessere amicizia ed insieme rivalutare le risorse del territorio. Sono le relazioni, infatti, a sostenere la vita parrocchiale, qualificare la celebrazione domenicale, costruire la comunità. Il desiderio di “esserci” nelle situazioni attuali (di confusione, di disagio, di conflitto…) chiede la scelta di investire sulle relazioni come modo concreto per testimoniare la speranza. L’uomo, infatti, spera sempre con gli altri, per altri e con l’aiuto di altri. Oggetto di questa speranza non è la solitudine, ma la comunione; la speranza umana si rivolge a persone; brama relazioni, non cose; attende accoglienza, benevolenza e amore”.
Da tutto questo ne consegue una tragica eliminazione di un modello di vita e di relazioni sociali di tipo tradizionale, con delle conseguenze sulla cultura, sull’economia e la politica dove emerge sempre più chiaramente, che l’uomo della Piana non avrà più alcun ruolo decisionale sul suo futuro. E a questo livello don Pino mette in campo la Chiesa, con una particolare “attenzione missionaria al nostro essere Chiesa”: “Ma quest’attenzione tesa al recupero della dimensione spirituale dell’uomo non può non passare per la concretezza della vita con le sue problematiche. Spirituali, ma non astratti, i cristiani possono e debbono essere grandi risorse di pace e senso umano per il nostro tempo. Non si tratta di un optional. La promozione sociale dell’uomo della Piana è fondamentale per la completa riunificazione di quell’uomo diviso a metà, di cui dicevamo prima. Molto spesso, il nostro essere Chiesa ha contribuito e continua a creare questa divisione, quasi che le cose spirituali non abbiano niente a che fare con le cose temporali. Il compito propedeutico della vera evangelizzazione è rispondere al bisogno disperato di speranza, dando un volto reale alla vera carità. Comunicare che la vita concreta possa avere un senso, che i problemi di ogni giorno, il lavoro, le ingiustizie, i fallimenti della politica, le carenze sanitarie, il malfunzionamento dei servizi, le difficoltà proprie dell’ambiente sociale possano essere riscattate e cristificate. Come comunità ecclesiale potremmo avere tutte le carte in regola per fare una rivoluzione sociale e culturale, per agire unitamente a migliorare, a dare speranza al nostro mondo. Cosa che spesso non facciamo perché abbiamo paura di spenderci e lottare in prima persona. E tutto questo a partire dal modo di porci dinnanzi alla prepotenza mafiosa che, come sappiamo, non è più fenomeno di arretratezza, ma al contrario, come affermavo prima, è una realtà sempre più diffusa e pervasiva, con i suoi tentacoli che si spingono in ogni ambito della vita economica, politica e sociale”.
C’è bisogno urgente, per la nostra Piana di un lavoro culturale e politico, capace di delineare e tendere alla possibile ricostruzione di un progetto serio per la Piana di Gioia Tauro, attraverso forme di incontro tra chi ha capacità e cuore per progettare un programma di sviluppo che vede coinvolti tutti i paesi della Piana: da protagonisti e non comparse del proprio destino. Gente che ha il coraggio di parlare della legalità e della giustizia, non avendo paura di dire che c’è bisogno di convertire a Dio la nostra terra, perché solo così si allontana il malcostume e la mafia. Con questa speranza, don Pino porta a termine il suo magistrale intervento: “E’ importante oggi più che mai testimoniare che come Chiesa stiamo dalla parte della legalità e della giustizia. Dove c’è mafia, infatti, non c’è Dio. Dobbiamo assolutamente convertire il nostro modo di essere chiesa concentrato solo sullo spirituale e poco sull’azione ed avere il coraggio di cui parlava Pietro: ”comportatevi come uomini liberi “. E’ da questa libertà (spesso offuscata dalla tentazione del “chi me lo fa fare?”), che dovrebbe esplodere una nuova presenza nel nostro mondo, una testimonianza della quale spesso abbiamo paura, che teniamo chiusa nelle nostre sacrestie.
Dinanzi ad una società della Piana, ferita e stanca, la Chiesa deve tornare sulla strada, in una condizione di mendicanza, deve essere in grado di abitare su quella frontiera esistenziale e geografica dove concretamente si incontra, si abbraccia, si accompagna l’umanità; una Chiesa “in uscita” non per insegnare, ma per apprendere. Appare, a tale proposito, di enorme attualità l’invito del Santo Prete di Parghelia, don Francesco Mottola ai suoi figli ad essere “certosini della strada” e la sua testimonianza di vita: “Nella mia terra di Calabria ho rifatto in ginocchio la Via Crucis; sono passato per tutti i villaggi, sono sceso in tutti i tuguri, ho transitato per tutte le quattordici stazioni. Ho sentito il singhiozzo della mia gente nel mio povero cuore. La gente di Calabria nel suo itinerario dolorosissimo non ha conforto, come Gesù, e bisogna confortarlo nella salita necessaria al Calvario”.
Bisogna avere il coraggio di dire che bisogna ritornare alla “missione”, che poi è quello che c’è più bisogno oggi nella nostra Piana, nelle nostre Diocesi e nei nostri paesi, e guardare alla Chiesa come unica realtà “missionaria”: è nella missione e non nella strategia di riaggancio di coloro che sono lontani (che poi sono quelli che ti ritrovi gomito a gomito in piazza, nella Chiesa, nella casa) che si sviluppa quella capacità di testimonianza e di azione storica che abbraccia tutti gli aspetti dell’esistenza. Questa strada delineata da don Pino sarà il banco di prova per la nostra Chiesa diocesana, su quel cammino che Ratzinger delineava in un “processo lungo”, dove la Chiesa dovrà essere sempre più “missionaria” e presente, in un mondo di indescrivibile solitudine, dove gli uomini avendo perso di vista Dio resteranno solo con l’orrore della loro povertà e solitudine e guarderanno alle nostre Chiese, con la speranza che possano, sempre più, essere luogo di incontro e segno di compagnia umana capace di infondere fiducia e speranza, alle persone che, nelle concrete vicende sociali e personali spesso tragiche e dolorose, rivolgono la loro mente e il loro cuore a Cristo.