I “BOZZETTI GALATRESI” DI UMBERTO DI STILO
Umberto Di Stilo mi ha regalato il suo ultimo libro, Bozzetti Galatresi, la prima cosa che ho sentito di fare è di dirgli “grazie” per questo suo ulteriore prezioso tassello che si va ad incastonare nella composizione di quel meraviglioso mosaico della storia di Galatro che, piano piano, sta completando con ogni sua nuova opera. Questo suo nuovo libro, come per incanto, ci rende attuale il richiamo divertito, serio, drammatico, culturale, di un tempo che, solo in una lettura superficiale della realtà, sembra non abbia più nulla da dire, testimoniare, insegnare.
Che cosa avrà scritto stavolta l’amico Umberto, mi chiedevo mentre sfogliavo le pagine del libro? E, man mano che le pagine scorrevano, provavo a immaginare cosa i Galatresi, di non oltre i quaranta anni, avrebbero percepito in queste pagine, cosa avrebbero colto e come avrebbero interpretato questi “bozzetti” di vita galatrese di tanti anni fa.
Ma leggendo l’introduzione al libro, in tante domande hanno trovato risposta nella presentazione che fa lo stesso Autore:
“Solitamente si sostiene che col passare degli anni, per uno strano fenomeno collegato all’avanzare dell’età, si dimenticano gli avvenimenti recenti e, prepotenti, tornano alla memoria episodi del passato. Anche quello morto. Episodi che, evidentemente, il tempo non solo non ha offuscato, ma restituisce alla memoria arricchiti di particolari e abbelliti dal magico alone del ricordo che tutto rende più bello e poetico. Capita allora, che episodi e particolari che un tempo sembravano del tutto insignificanti, a distanza di anni, se rivissuti nel ricordo, acquistino la suggestione e i contorni delle favole e, non di rado, si riscoprano anche dell’abito travolgente della nostalgia. Magia del ricordo e degli anni che, passando, ovattano di fascino ogni cosa. … Ed allora sullo schermo della memoria sono tornate ad animarsi non soltanto immagini in bianco e nero di persone care che mi sono state vicine, ma anche diversi episodi dell’infanzia e della gioventù… Figure di persone familiari, dunque, ma anche di semplici conoscenti, sono tornate nitide alla memoria e, insieme a loro, nel magico mondo onirico, hanno ripreso forma e consistenza alcuni episodi di vita cittadina dei quali loro stessi sono stati protagonisti. Si tratta di persone del popolo che all’interno della comunità hanno vissuto la loro quotidianità in maniera discreta e che oggi meritano il massimo apprezzamento per la loro grande dignità e per i sentimenti di solidarietà e collaborazione che hanno contraddistinto la loro vita anche quando, in alcuni determinati periodi storici, le condizioni socio-economiche della comunità erano particolarmente proibitive”.
In nessuna pagina dei “Bozzetti Galatresi” Umberto Di Stilo concede spunto all’estetismo, nel senso che non cerca di farci capire com’era bella (o brutta) la vita dei Galatresi nel periodo dell’immediato dopoguerra; ma molto più “piacevolmente” ci fa vedere la verità di quella vita, cioè la totalità di una cultura che oggi è totalmente scomparsa e, non solo non c’è più, ma non potrà mai più tornare ad esserci, e proprio in questo sta il valore profondo di racconti di questa opera letteraria.
Il grande realismo (anche se preferisco dire “la grande verità”) che esplode in tutti i “racconti-bozzetti” non può essere definito solo con un giudizio estetico o con le suggestioni particolari che si ri-vivono nei vari racconti, perché questo libro, a mio avviso, non è “realista”… è “profondamente e realmente vero!”. E, sotto questo aspetto, possiamo dire che ci troviamo davanti ad un “qualcosa” che può rappresentare “l’osso più duro da masticare”: Umberto Di Stilo con questa sua opera ci porta a chiederci come sia possibile, in una società schizofrenica e instabile come la nostra, che si possa ancora apprezzare una simile testimonianza di valori e di affetti.
Una realtà dove la povertà, il dolore, la fatica, i rimpianti, gli scherzi, le consuetudini, il lavoro dei nostri artigiani, esprimono un giudizio sul modo di concepire e di vivere l’esistenza che ci supera di molte lunghezze. Non so quanti nel libro hanno colto la limpida immagine della laboriosità della nostra gente, che ha guidato la genialità creativa del nostro popolo. La descrizione della realtà che si presenta davanti al giovane Saverio, appena entra a Galatro è, a mio avviso, una delle pagine più belle dei “Bozzetti Galatresi”, ed è sorprendente, almeno per me, che questa immagine venga rappresentata e ricordata a noi galatresi del 2013, quando ormai di quanto raffigurato non rimane neanche il ricordo.
Almeno grazie alla letteratura possiamo conoscere e rivivere i segni dell’antica laboriosità, professionalità, vitalità del nostro popolo:
“Come per incanto, quando dopo l’ultima curva gli fu improvvisamente di fronte il panorama di Galatro con il calvario in cima alla bianca collina e le abitazioni che, attaccate le une alle altre quasi per vicendevole protezione, sembra vogliano dar vita ad un naturale grande presepe, sia pure in maniera sfumata, ricordò il paese. Si accorse che le abitazioni poste in fondo alla valle presentavano le ferite prodotte dalla furia devastatrice delle acque e che poco più avanti del palazzo nel quale ricordò di avere abitato insieme alla nonna, qua e là erano ancora ammassati cumuli di macerie. Erano i resti delle case, del frantoio e dell’albergo che il fiume aveva demolito dalle fondamenta o aveva squarciato buona parte delle pareti perimetrali. Incuriosito si fermò ad osservare con attenzione ed ebbe l’impressione di trovarsi improvvisamente in un grande quartiere. Ovunque operai a lavoro. A sinistra notò che si stava procedendo alla costruzione di un grande muro di contenimento perché sul pianoro soprastante era in avanzato stato di realizzazione un rione di case popolari destinate ai danneggiati dell’alluvione di due anni prima; poco più avanti procedevano spediti i lavori del mastodontico ponte che avrebbe garantito l’attraversamento del fiume che non scorreva più libero tra i campi e le case del paese, come lo aveva visto anni prima, ma lo stavano dotando di nuove briglie e di robusti argini anch’essi in avanzato stato di costruzione. Donne con grosse pietre o secchi pieni di sabbia in testa, uomini che spalavano nel fiume, muratori che accatastavano pietre su pietre, carpentieri che inchiodavano tavole e preparavano i cassoni per le prossime gettate di cemento; sul letto del fiume scalpellini indaffarati a preparare i grossi blocchi di granito da utilizzare per l’arco del ponte… Un fervore di opere ed un gran numero di operai che lavoravano in più punti ed altri che si spostavano da una parte all’altra… una situazione di grande operosità che impressionò Saverio. Sono arrivato in un grande cantiere, pensò guardandosi intorno…”.
Come posso non ringraziare Umberto Di Stilo per avermi fatto rivivere, anche se solo con il racconto, la storia che ho sempre sentito ripetere da mia madre riguardante il mio bisnonno Francesco Cuppari e tutta una generazione di famiglie di fabbri che ci hanno lasciato un patrimonio “artistico e culturale” che ancora oggi, in tanti posti, è possibile ammirare:
“… qui a Galatro tutti i fabbri si cimentano in vere creazioni artistiche. Sai, i fratelli Macrì, che hanno la bottega poco più sotto, in questa stessa strada, col ferro riescono a fare anche delle bisce che sembrano vere e tanti altri lavori di grande precisione… quelle bisce sono così perfette che quando le stringi nella mano, hai l’impressione di avvertire anche la loro viscida essenza. E poi abbiamo il più grande artista del ferro battuto: mastro Ciccio Cuppari, zio del mio maestro. Da qualche anno si è trasferito ad Oppido ma nelle migliori famiglie galatresi e della zona ha lasciato opere di grande gusto artistico e, proprio perché la sua arte del ferro battuto ha varcato i confini comunali, è stato incaricato di realizzare tutti i lavori in ferro che abbelliscono l’interno della cattedrale di Oppido. Quei lavori per la loro bellezza artistica e per la loro impeccabile esecuzione sono stati molto apprezzati da tutti, tanto è vero che le loro fotografie sono state pubblicate sui giornali…”
Credo che Umberto Di Stilo, con i “Bozzetti Galatresi”, ci abbia fatto scoprire ed incontrare un pezzo di storia del nostro paese sconosciuta a molti, una storia non scritta, legata a persone che hanno pensato, vissuto, operato, creato tante belle cose, anche se, il più delle volte è stato tramandato neanche il loro nome. Bisogna ringraziare Umberto Di Stilo perché ha reso possibile uno “scavo” nella memoria galatrese ed ha fatto rivivere la storia di uomini e donne legati in maniera inscindibile alla storia del nostro paese… ha “fotografato” la verità di certe storie legate alle persone, al nostro paesaggio, al nostro ambiente, alla nostra cultura, mediante racconti tramandati soprattutto oralmente, che Umberto ha ritenuto di dover trasmettere alle generazioni future, come lui stesso dice nell’introduzione al libro
“Nello sfondo dei semplici racconti, tutti ispirati a fatti realmente accaduti, spero di essere riuscito a far emergere anche la indiscussa e riconosciuta eccellenza dell’artigianato galatrese, un universo che, oltre al mio ricordo, meriterebbe maggiore attenzione soprattutto dalle istituzioni…”.
Diceva Cesare Pavese: “prima dei libri ci furono le favole, le immagini, ci furono i canti e le feste”: Umberto Di Stilo con i “bozzetti” non intende fare l’elegia di un tempo che ormai non c’è più, ma rievoca un patrimonio vivente, conosciuto direttamente, ma anche attraverso il parlare con tante persone, attraverso molti incontri e dialoghi, ascoltando le voci di chi queste storie le ha vissute. Perché non potremo mai più tornare indietro, riportare “ai giorni nostri” tutto quel mondo ormai andato… Ma, dalla lettura del libro appare chiaro che possiamo e dobbiamo senz’altro riconsiderare tutti i valori che, all’interno di quella società e di quelle persone, avevano trovato un equilibrio ed una maestranza che permetteva al nostro piccolo borgo di essere considerato come la culla dei più grandi maestri artigiani:
“… A quei tempi a Galatro era ancora assai fiorente l’artigianato e da tutto il circondario si guardava al suggestivo paese edificato sulle sponde del Metramo come alla culla dei più grandi maestri artigiani. Le botteghe non erano solo luoghi di lavoro, veri templi consacrati alla fatica, ma anche punti di incontro, di discussione e, a volte, anche si scherzi e di innocenti passatempo. Nei ritagli di tempo libero nei saloni si giocava a dama o si suonava il mandolino, nelle sartorie si discuteva di dogmi e si suonava la fisarmonica, nelle falegnamerie, tra un colpo di martello e uno di pialla, le fazioni di Coppi e Bartali discutevano animatamente di ciclismo, nelle forgie si parlava do politica e nelle calzolerie si predisponevano scherzi… All’epoca tutti i laboratori artigianali erano popolati da apprendisti perché l’artigianato, insieme all’agricoltura, dava solide garanzie di lavoro e costituiva le colonne portanti della locale economia. Non era soltanto artigianato maschile perché accanto ai sarti, ai calzolai, ai falegnami ed ai fabbri c’erano le provette sarte, le esperte ricamatrici e le brave tessitrici che contribuivano a tenere alto il buon nome dell’artigianato artistico galatrese. I ragazzi, già in tenera età, se non andavano in campagna insieme ai genitori contadini, venivano avviati ad una bottega artigianale per apprendere il mestiere per il quale si sentivano più portati e che in futuro avrebbe loro garantito il necessario per vivere. I figli degli artigiani, sin da piccoli, solitamente cominciavano a lavorare nella bottega di papà, per cui da una generazione all’altra, in quelle famiglie, tutti i componenti, praticavano lo stesso mestiere. Era sarto il figlio del sarto, e il figlio del calzolaio, il figlio del falegname e il figlio del fabbro avrebbero continuato a fare il mestiere dei loro genitori. Tutto ciò perché, come recitava un antico precetto l’arti du’ tata è menza ‘mparata …”
Con i “Bozzetti Galatresi” Umberto Di Stilo ha consegnato, non solo alla Storia del nostro paese un bel ritratto della vita com’era a Galatro più di mezzo secolo addietro, ma è anche riuscito, ancora una volta, a presentare delle persone vere e concrete, rispettandone fino in fondo ogni semplice e peculiare caratteristica: ha ricordato e descritto dei personaggi galatresi indimenticabili, riuscendo a ridare volto, memoria e vita agli amici che ormai non ci sono più, facendo rivivere conoscenti di un tempo ormai remoto, il cui ricordo non si è ancora spento. Ci ha messo davanti delle persone vive, protagoniste di un mondo semplice e reale, che si staglia sullo sfondo di una Galatro ricca di valori e di sentimenti, nonostante ci si trovi nel difficile periodo del dopoguerra, dove la povertà e la fame erano delle realtà con le quali bisognava fare i conti giornalmente.
Per il lettore che si ritrova a leggere di don Agostino Albanese, di ‘Ntoni Librandi, dei Forgiari di Galatro, di Marefrancisca, di mastro Rocco Distilo, di Giuseppe Panetta, di Mastru Vicenzu, don Aurelio Lamanna, Ciccillo, Rosina… è come trovarsi dentro un racconto di un mondo ormai lontano, dal quale siamo presi ed imbrigliati, sin dalla lettura delle prime pagine, per il riaffiorare di un qualcosa che “sentiamo” di avere dentro e Umberto ci svela di cosa si tratta. E, grazie alla sua prodigiosa memoria, alla sua inarrestabile creatività, Umberto Di Stilo ci presenta dei personaggi che nascono dalla sovrapposizione di infiniti dettagli, di storie e personaggi che hanno dell’incredibile: non un mondo idilliaco, non la ricerca del tempo perduto, ma la memoria di una tradizione ancora capace di trasmettere il fascino e l’immagine di un mondo del quale dobbiamo riconsiderare il modo di concepire la vita in tutta la sua verità e bellezza. Per questo nuovo tassello che Umberto Di Stilo ha realizzato, per completare la composizione finale del grande mosaico che sta realizzando sulla nostra storia, sui nostri beni artistici, sulle nostre tradizioni… all’esplosione del “grazie” iniziale, non può non seguire la domanda: a quando il prossimo tassello?…