IL CLERO UXORATO NELLA CALABRIA GRECA E IL CLAMOROSO CASO DI ANTONIO ASPREA
Nel cuore dell’area grecanica della Calabria meridionale, tra Gallicianò, Condofuri e Bova, (luoghi della tradizione della Chiesa Orientale, con le sue liturgie greco-bizantine perpetuatesi fino alla definitiva imposizione del rito latino avvenuta nel 1572) ha svolto il suo ministero sacerdotale, tra l’inizio e fino alla metà degli anni ’60 del Novecento, un singolare prete di campagna, don Antonio Asprea, famoso, soprattutto, per l’anomalia dei numerosi figli procreati nella convivenza more uxorio con la perpetua. È proprio questa sua singolare situazione familiare, contestualizzata in una realtà influenzata dalla tradizione greco-bizantina della Chiesa orientale (nella quale era usuale che il protopapa avesse moglie e figli) sul cui sfondo si svolgono le vicende narrate, ad essere sdoganata, dopo vari periodi di allontanamento decretati per motivi disciplinari, come sui generis. Nel libro “Il Clero Uxorato nella Calabria Greca” di Angelo Labrini, avvocato, nato a Reggio Calabria, dove vive e lavora e, nello svolgimento della sua professione forense corrisponde con la rivista giuridica “Informazione previdenziale” edita dall’Avvocatura centrale dell’Inps, mentre nel tempo libero collabora con riviste di archeologia e coltiva interessi per la musica, le tradizioni popolari della Bovesia e i misteri del mondo antico.
Nel farmi conoscere questa sua pubblicazione Angelo Labrini (che conosco, e stimo, da diversi anni) mi ha detto: “Confido di poterti annoverare presto tra “i miei venticinque lettori”. Bene, ritengo d’interesse per il tuo ambito di studio il capitolo “Il ricercato equivoco” a proposito del più noto “Il Previtocciolo” di don Luca Asprea, alias Carmine Ragno”. Ho colto la palla al balzo e ho pensato bene di coinvolgere l’amico prof. Umberto di Stilo, con il quale in più occasioni ci siamo trovati a parlare del “Previtocciolo” di don Luca Asprea, che lui ha conosciuto molto bene, il quale ha accettato subito di intervenire con un suo scritto sul libro di Angelo Labrini. Lo scritto Umberto si presenta come un ulteriore e prezioso “tassello” che va ad arricchire una pagina veramente singolare su due personaggi straordinari che meritano di essere conosciuti attraverso numerosi aneddoti, tramandati oralmente con varie coloriture e varianti popolari, che li rendono quasi dei personaggi leggendari.
Michele Scozzarra
Interessante pubblicazione di Angelo Labrini
IL CLERO UXORATO NELLA CALABRIA GRECA E IL CLAMOROSO CASO DI DON ANTONIO ASPREA
di Umberto di Stilo
Lo confesso: leggendo sulla copertina del volume di Angelo Labrini il nome Asprea, il mio pensiero è immediatamente andato a Don Luca, che nei primi anni settanta con “Il Previtocciolo”, è diventato un vero e proprio caso letterario e ha suscitato un vespaio di polemiche negli ambienti ecclesiastici calabresi e, in particolare, in quelli di Oppido, cittadina sede del seminario nel quale ha condotto i suoi studi e nella cui società civile ha ambientato le fantasie erotiche del giovane seminarista che racconta nelle pagine del suo romanzo.Ma è stato solo un attimo. Leggendo bene il titolo della pubblicazione, infatti, mi sono immediatamente reso conto di essere caduto in errore giacché Labrini scrive del “Clero uxorato nella Calabria greca” che non ha nulla in comune con il clero a cui fa riferimento don Luca nel suo romanzo. L’Asprea di cui Angelo Labrini nella sua pubblicazione “Il clamoroso caso di don Antonio Asprea” (Città del sole Editrice, 2024) ricostruisce fin nei particolari la vita, è un prete di campagna che tra l’inizio del novecento e la metà degli anni sessanta ha svolto la sua missione sacerdotale di parroco nel cuore dell’area grecanica della bovesia – Gallicianò e Condofuri – lasciando traccia indelebile della sua presenza e del suo apostolato soprattutto per la chiacchierata condotta di prete sui generis che ha sempre vissuto in maniera libertina e assai difforme alle norme canoniche. Era a tutti notorio, infatti, “che aveva tutte le donne che sceglieva come sue amanti” e che a Gallicianò ha sempre vissuto pubblicamente more uxorio con una sua preferita – una tale donna Giovanna – che soggiornava da vera padrona nella sua lussuosa casa e dalla quale ha avuto anche diversi figli tutti registrati all’anagrafe con cognomi di fantasia. Fatto assolutamente insolito e scandaloso per un parroco di rito latino, qual era don Antonio.
A tal proposito, Labrini, pur ricordando che in tutta l’area grecanica della diocesi di Bova sin dal 1572 – per disposizione vescovile – il rito latino aveva sostituito il precedente rito greco-bizantino, quasi a giustificazione della difformità di condotta dell’Asprea, ritiene che, molto probabilmente, su don Antonio ha avuto una notevole influenza la tradizione della chiesa orientale “ancora viva nell’area grecanica” nella quale, anche per mancanza di cultura, continuava ad essere presente negli usi e nei costumi della popolazione e che “nella Gallicianò dei primi decenni del novecento”, il giovane sacerdote “dovette adeguarsi” ad una realtà di grande indigenza e ancora culturalmente legata “alla ortodossia orientale” per cui il legame affettivo e carnale del giovane parroco “con una ragazza del posto divenne quasi uno sbocco naturale e non scandaloso”. Ciò anche perché a quel tempo, i fedeli di Gallicianò (così come subito dopo anche quelli di Condofuri) continuavano ad avere il convincimento che il parroco -in quanto continuatore del protopapa della tradizione greco-bizantina- potesse essere regolarmente coniugato, ignorando, però, che nella chiesa cattolica ai sacerdoti è imposto il rigore del celibato. La ricostruzione della vicenda umana e religiosa che di don Antonio ci fornisce Angelo Labrini è ricca di aneddoti e di particolari che servono a comporre il mosaico dell’uomo e del prete Asprea ed è scritta in una forma scorrevole e chiara che appassiona e incuriosisce il lettore.
A stimolare un naturale impeto di curiosità è, sicuramente il richiamo al “clero uxorato” della copertina, richiamo che da solo è capace di suscitare una particolare attenzione. Soprattutto nella consapevolezza che per i sacerdoti cattolici, da sempre, non è ammesso il matrimonio. Ciò non toglie, però, che dacché mondo è mondo, assai rari sono stati i casi di sacerdoti che hanno rispettato l’obbligo della castità perché -come ci viene tramandato dalla letteratura popolare orale e dagli innumerevoli documenti di denuncia conservati negli archivi diocesani- è sempre stata assai diffusa la consuetudine che i sacerdoti, lasciandosi sopraffare dall’istinto di uomini, spesso cedano alla incontenibile attrazione per l’universo femminile e, protetti da un sottile velo di generale ipocrita tolleranza, vivano in clandestinità la loro attrazione verso qualche pecorella smarrita del loro numeroso gregge fino ad eleggerla al ruolo di perpetua.
A rendere più ricca di particolari la vita e l’opera di don Asprea, però, concorrono diverse altre vicende che contribuiscono a fare di questo parroco di campagna un prete dalle molte sfaccettature umane ma anche dalle molteplici capacità. Lo troviamo, infatti, benefattore sempre vicino alle persone in difficoltà e difensore dei più deboli. In tale veste, negli anni in cui fu parroco di Gallicianò si mise a capo della rivolta che i suoi parrocchiani avevano organizzato per protestare contro l’esosità delle tasse applicate dal Podestà e, nonostante le vibrate proteste dei suoi concittadini, fu arrestato.
Nella ricostruzione storica ed antropologica che Angelo Labrini consegna alla storia, don Antonio Asprea è ricordato anche come apprezzato e ricercato oratore sacro, qualità che ebbe modo di perfezionare nel corso degli otto anni di “esilio” che, dopo essere stato privato della titolarità parrocchiale di Gallicianò e Condofuri, gli sono stati inflitti dal vescovo della diocesi nella speranza di riuscire a portarlo sulla retta condotta e di allontanarlo dalla “signora Giovanna”. Per scontare la penitenza fu mandato in un convento di cappuccini in Puglia ma dopo pochi giorni i frati furono costretti a interrompere la sua “espiazione mistica” e a mandarlo via perché non rispettoso delle rigide regole di vita monastica. Sempre nell’intento di allontanarlo da Gallicianò, il Vescovo lo chiamò a Bova e gli conferì la dignità di canonico del capitolo di quella cattedrale. Durante il periodo bellico, per decreto vescovile l’esilio di don Antonio continuò presso il santuario di Polsi perché nella solitudine della montagna aspromontana potesse impegnarsi nella meditazione e nella preghiera. Qui, però, nel settembre 1943 quando le truppe americane sbarcarono in Calabria e i militari tedeschi facendo ovunque razzia di ciò che trovavano sul loro passaggio cominciarono a battere ritirata verso la Germania, don Antonio, temendo che potessero passare da Polsi e saccheggiassero il tesoro della Madonna costituito dai numerosi ex voto dei fedeli, pensò di metterlo al sicuro e, aiutato da un ignaro pastore, caricati tutti quei preziosi su un mulo, ritornò a Condofuri. La tradizione orale racconta che prima ancora di mettere le mani sul tesoro, don Antonio abbia chiesto l’autorizzazione alla Madonna che, alla specifica domanda, avrebbe risposto “pigghja pigghja, e fai campari”.
Poichè del furto non è stata mai fatta alcuna denuncia, Labrini ritiene che debba essere ritenuta valida l’interpretazione popolare secondo la quale la Madre Celeste ha voluto dare a don Asprea la concreta possibilità di impiegare quel tesoro in opere di carità per venire incontro ai problemi esistenziali della povera gente. Le nuove risorse economiche, infatti, permisero a don Antonio di guardare alle necessità più urgenti di molte famiglie dando aiuto concreto a quanti, spinti dal bisogno, frequentavano la mensa della sua casa ove donna Giovanna, ottemperando al divino suggerimento del “pigghja e fai campari”, era pronta a servire abbondanti pietanze accompagnate dalla immancabile carne di capra. In quegli stessi anni l’improvvisa disponibilità economica fece guadagnare al buon sacerdote di campagna un tale prestigio da vedersi attribuire titoli e benemerenze fino a poco tempo prima del tutto impensabili. Infatti, prima gli fu conferito il titolo di cavaliere, poi quello di commendatore dell’”Ordine militare ed ospedaliero di Santa Maria di Betlemme” e, successivamente, ebbe anche la possibilità di allacciare rapporti di amicizia con il cardinale Alfredo Ottaviani, Camerlengo del sacro collegio.
Un’ultima, conclusiva annotazione: è assai probabile – così come Labrini ipotizza – che all’epoca in cui il don Luca del Previtocciolo (Carmine Ragno, all’anagrafe) ha dato alle stampe il suo romanzo abbia consapevolmente preso in prestito il cognome del parroco di Gallicianò, di cui anche negli ambienti ecclesiastici della zona tirrenica erano note le imprese amorose ed il suo ostinato vivere more uxorio, perché riteneva che i contenuti a sfondo sessuale e le fantasie erotiche del suo romanzo fossero assai simili a quelli concretamente vissuti dal parroco della piccola comunità grecanica di Gallicianò. Al di là dell’iniziale sorpresa, comunque, la snella ed intrigante pubblicazione di Angelo Labrini oltre a fornire un interessante affresco di uno spaccato storico sociale ed antropologico che nella prima metà del novecento ha caratterizzato una piccola comunità grecanica della diocesi di Bova, offre al lettore l’opportunità di conoscere la figura di un prete assai discutibile per la sua condotta morale in totale difformità con i canoni della chiesa di Roma, ma tanto capace ed intelligente da riuscire a guadagnarsi la stima dei fedeli e di allacciare rapporti di amicizia e di stima non solo con le alte sfere delle istituzioni ecclesiastiche locali ma anche con il Camerlengo del sacro collegio.
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