IL TORMENTO E LA SPERANZA IN CESARE PAVESE

E’ difficile fare un percorso, per quanto piccolo esso sia, sulle tracce di Cesare Pavese per cercare di andare in fondo alla sua umanità, per scorgere quella “santa inquietudine” che lo ha portato fino al gesto estremo di rinunciare alla vita. Occorre rischiare, seguire Pavese, fare un lungo viaggio con lui anche nella trasformazione dei diversi luoghi, da lui vissuti e subiti, e della sua stessa vita; poiché il “luogo” in Pavese diviene da naturale riferimento a spazio di un dramma supremo. Tutta l’intelligenza di cui era dotato, la fama e il riconoscimento, non gli impedirono di sentirsi solo, da qui nasce la profondissima inquietudine che lo fece essere realista ed intelligentissimo sulle dinamiche e sulle esperienze fondamentali dell’esistenza. Non basta a non sentirsi soli. Lo dice chiaramente in molti passi delle sue opere: tutto ciò in cui ha creduto (dalle filosofie materialiste alla vastissima intelligenza poetico letteraria) non era ciò che viveva.

Questa solitudine non trova nel suicidio finale un esito scontato su cui, come chiese, è vano ed idiota fare “pettegolezzi”. Quella morte in una stanza è piuttosto la figura continua, la metafora (o meglio l’allegoria, poiché ha il peso e il dolore di un fatto) di tutta l’esistenza vissuta in quella solitudine… infatti quello che si consumò nella stanza dell’Hotel Roma, in Pavese era già accaduto mille e mille volte prima. Avvicinarsi all’opera di Pavese significa avere la possibilità di incontrare delle pagine che rimandano costantemente al dramma esistenziale di un uomo che, con la trama della sua vicenda umana, ha lasciato aperto un inquietante interrogativo sul tormento nella ricerca di “qualcos’altro”, forse nutrendo anche paura dei proprio sentimenti, senza avere timore di confessarlo.

Cesare Pavese carica di straordinario significato l’ultimo suo testo, La luna ed i falò, del quale si sono desunte le due immagini-mito che servono per esplorare le tematiche dell’opera di Pavese. Innanzitutto la solitudine. Il protagonista de “La luna e i falò” denuncia da subito la sua radicale solitudine. “Tuo padre sei tu” gli dice Nuto. Nella condizione di orfano, di bastardo, c’è la constatazione che nessuno può rispondere alla domanda di felicità e di realizzazione del protagonista. Così Anguilla ripercorre il suo percorso interiore, cercando di ricostruire la propria memoria di uomo, sotto la luce pallida della luna, come nella celebre canzone leopardiana il pastore solitario nel deserto scioglie alla luna la sua nenia malinconica. Alla fine del capitolo XI de “La Luna e i Falò”, il protagonista Anguilla, obbligato a passare la notte in una in una zona del tutto deserta dell’America, a causa di un guasto all’auto, racconta: “Più avanti nella notte una grossa cagnara mi svegliò di soprassalto. Sembrava che tutta la pianura fosse un campo di battaglia, o un cortile. C’era una luce rossastra, scesi fuori intirizzito e scassato; tra le nuvole basse era spuntata una fetta di luna che pareva una ferita di coltello e insanguinava la pianura. Rimasi a guardarla un pezzo. Mi fece davvero spavento”.

La luna sembra prendere vita, animarsi di un rosso acceso (il rosso del sangue, che è allo stesso tempo simbolo della vita e della morte ) e, data la sua forma, assume così l’aspetto di una ferita. E’ la ferita dell’anima di Anguilla causata dalla mancanza di una famiglia, di una casa, di una terra in cui ritrovare le proprie origini e in cui piantare le proprie radici; una ferita che crea un’assenza di senso, il senso della vita e della morte, colmabile soltanto con una risposta alla sua attesa esistenziale. Ma la risposta della luna è la sua esistenza stessa. Per questo essa, in grado di osservare l’animo degli uomini, si carica di un valore simbolico e mitico. La luna è un elemento del paesaggio notturno della campagna ed è punto di riferimento per la vita contadina, infatti in base ad essa si pianta il grano, si coltivano i campi, si vendemmia l’uva ecc…, per questo compare spesso nelle opere di Pavese. Tuttavia la luna de “La Luna e i Falò” così come la luna dei “Dialoghi Con Leucò” è simbolo del divino, rappresenta, come per Leopardi nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” e per molti altri scrittori, un “Tu” lontano, fuori dal tempo e dallo spazio, a cui si possono rivolgere domande che l’uomo non riesce a risolvere. Essa è quindi una sorta di elemento divino che assume un aspetto razionale, la suprema ragione della vita e del mondo.

Ma in che modo gli uomini riescono ad entrare in contatto con il “tu” divino della luna? La risposta la troviamo ancora una volta nel mondo contadino della collina: i falò. Il ruolo dei falò è quindi quello di tramite tra il mondo contadino e il mondo divino: essi infatti sono elementi tipici dell’ambiente contadino notturno, e con i loro fumi che si levano in cielo riescono a provocare la pioggia, a far piangere il cielo, a raggiungere la luna. Grazie a questo collegamento la luna sembra farsi carico delle pene di chi, come Anguilla, ha passato un’intera vita a fuggire dalla collina, luogo che infonde tranquillità e felicità perché riporta l’uomo alla condizione di vita primordiale, per rifugiarsi in città che, siano esse piemontesi, come Torino, o americane, hanno portato soltanto isolamento e infelicità. “Adesso mi pareva di aver sempre saputo che si sarebbe giunti a quella specie di risacca tra collina e città, a quell’angoscia perpetua che limitava ogni progetto all’indomani, al risveglio, e quasi quasi l’avrei detto, se qualcuno avesse potuto ascoltarmi. Ma soltanto un cuore amico avrebbe potuto ascoltarmi”. Anguilla che ha girato il mondo fa professione di scettico: non può credere ai miti e s’identifica con chi vede in essi falsità ed inganno. “Allora gli dissi che nel mondo ne avevo sentite di storie, ma le più grosse erano queste. Era inutile che trovasse tanto da dire sul governo e sui discorsi dei preti se poi credeva a queste superstizioni come i vecchi di sua nonna.

E fu allora che Nuto calmo calmo mi disse che superstizione è soltanto quella che fa del male, e se uno adoperasse la luna e i falò per derubare i contadini e tenerli all’oscuro, allora sarebbe lui l’ignorante e bisognerebbe fucilarlo in piazza. Ma prima di parlare dovevo ridiventare campagnolo. Pavese avverte con drammaticità che la gratuità non è una semplice impressione momentanea, ma la regola stessa con cui la vita a noi si offre. Si sofferma però su un dato di fatto positivo: nulla è dovuto, ma in ogni cosa, nell’ amore, nella poesia, nella passione politica, l’io esprime un’attesa,manifesta il suo desiderio di felicità. Non la nausea, ma l’attesa che qualcosa possa accadere.Scriveva già il 29 novembre 1937 “Non dovrà sorprendermi in qualche mattina di nebbia e di sole il pensiero che quanto ho avuto è stato un dono, un grande dono? Che dal nulla dei miei padri, da quell’ostile nulla, sono pure sgorgato e cresciuto io solo, con tutte le mie viltà e le mie glorie e a fatica e durezza, scampando ogni sorta di rischi, sono giunto a quest’oggi, robusto e concreto incontrando lei sola, altro miracolo del nulla e del caso? E che quanto ho goduto e sofferto con lei non è stato che un dono, un gran dono?” “E’ bello vivere perchè vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante”. Perchè vivere è attesa di un avvenimento. E la morte è non attendere nulla “Tu sei come una terrai che nessuno ha mai detto. /Tu non attendi nulla! se non la parola! che sgorgherà dal fondo! come un frutto tra i rami. I…. / Tu tremi nell’estate”.

Scrive ancora ne “Lo steddazzu”: ”La lentezza dell’ora è spietata, per chi non aspetta più nulla.” Aspettare è ancora un’occupazione; è non attendere nulla che è terribile. “Lo steddazzu” fu composta da Pavese nell’inverno 1935–36, mentre era al confino in Calabria a Brancaleone (“steddazzu”, in dialetto calabrese, significa “grossa stella”, nome attribuito a Venere, la stella “verdognola”). Il momento di sospensione che precede l’alba spinge il personaggio della poesia, in virtù anche della solitudine, a interrogarsi sul valore e sul significato dell’esistenza. E la risposta si sofferma solo sul carattere ripetitivo e senza veri avvenimenti della vita, così che i fenomeni naturali che indicano il trascorrere del tempo, anch’essi ripetitivi e sempre uguali (il sorgere del sole soprattutto, descritto con bellissime note coloristiche: “Anche il mare / tra non molto sarà come il fuoco, avvampante”), vengono osservati da questo punto di vista senza speranza, e si caricano di un significato simbolico che rimanda all’impenetrabilità dei grandi dubbi esistenziali.

L’uomo solo si leva che il mare e ancor buio

e le stelle vacillano.  Un tepore di fiato

sale su dalla riva, dov’è il letto del mare,

e addolcisce il respiro.  Quest’è l’ora in cui nulla

può accadere. Perfino la pipa tra i denti

pende spenta.  Notturno è il sommesso sciacquio.

L’uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami

e lo guarda arrossare il terreno.  Anche il mare

tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.

Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno

in cui nulla accadrà.  Non c’è cosa più amara

che l’inutilità.  Pende stanca nel cielo

una stella verdognola, sorpresa dall’alba.

Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco

a cui l’uomo, per fare qualcosa, si scalda;

vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne

dov’è un letto di neve.  La lentezza dell’ora

e spietata, per chi non aspetta più nulla.

Val la pena che il sole si levi dal mare

e la lunga giornata cominci?  Domani

tornerà l’alba tiepida con la diafana luce

e sarà come ieri e mai nulla accadrà.

L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire.

Quando l’ultima stella si spegne nel cielo,

l’uomo adagio prepara la pipa e l’accende.

“Lo Steddazzu” è una poesia forte e anche tremenda: “Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno in cui nulla accadrà, non c’è cosa più amara che l’inutilità”. Sono versi tremendi, però come sono veri! Entrano nella rosa chiusa che abbiamo nel petto a strappare una questione importante.
In fondo, quante volte viviamo un’alba tremenda, amara, perché da quel giorno non ci aspettiamo niente. E non è solo la condizione dell’esiliato, dell’uomo solo che sulla riva del mare si alza, e vede, in questa occasione in cui nulla può accadere, una pipa che pende tra i denti, e anche una stella che pende, stanca. Quella che dovrebbe essere annuncio del giorno, pende già stanca. L’uomo che non attende nulla, vede tutto pendere, come una cosa scontata, come una cosa solita, una stella verdognola, del colore della malattia: una stella con l’influenza; spenta, il contrario della luce quasi. La lentezza dell’ora è spietata perché non aspettiamo nulla. Questa  del tempo che diventa lungo perché non aspettiamo niente è una esperienza che facciamo tutti, non la fanno solo i poeti. Se hai un appuntamento con lei alle cinque, dalle quattro alle cinque il tempo è lento nel senso che non vedi l’ora che arrivi lei, ma senti che il tempo passa . Invece, se non aspetti nessuno la lentezza dell’ora è spietata. 

Pavese ha scritto poesie, romanzi, ed anche uno straordinario zibaldone, famosissimo: “Il mestiere di vivere”: in esso vi annotava , un po’ come faceva Leopardi, quasi quotidianamente, osservazioni che vanno dalla sua vita privata a questioni letterarie. Questo zibaldone è quindi un diario straordinario, di un’anima e del suo lavoro, dove riprende il pensiero dell’attesa, che sembra assurda, di una cosa che non c’è, che non viene, per cui niente è così triste come l’alba di un giorno in cui niente avverrà. “Come è grande il pensiero che nulla a noi è dovuto!” scrive Pavese,  perché è come dire: “Non devi pretendere: non ti è dovuto nulla”. L’uomo non si può alzare la mattina pretendendo. La pretesa, anche nei rapporti personali, è il contrario dell’attesa, perché l’attesa ha dentro una domanda piena di rispetto, la pretesa, invece, è irriguardosa: “Voglio da te qualcosa, comunque. Pretendo che tu sia così”. Ma “qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora, perché attendiamo?” In questa domanda c’è l’inquietudine di questo uomo. La mattina ci alziamo e comunque, in qualche modo, anche se non ti è chiaro, da quel giorno ti aspetti qualcosa. Perché la mattina una ragazza si trucca, raccoglie i capelli in una treccia, perché si sistema come si deve? Perché anche gli uomini fanno similmente. Ci si sistema e si esce fuori come a dire: “Be’,  esco fuori, perché qualche cosa succederà”. Ci si tira su dal letto: va bene, perché si deve andare a scuola, ecc. E Pavese dice: “E’ strano, Qualcuno ci ha promesso qualcosa? Allora, perché attendiamo?” L’uomo è questo strano marchingegno che attende per cui sente terribile l’alba in cui nulla accadrà. Noi coscientemente non ci pensiamo. Cesare Pavese, nonostante come ha chiuso la sua vicenda umana, sembra avere più coscienza della vita. Alla posizione di attesa, Pavese oppone quello che chiama stoicismo e ne “Il mestiere di vivere” si moltiplicano proprio nell’ultimo anno i segni che per lui nulla può più accadere “Mi si chiarisce l’idea che anche se torna sarà come se non ci fosse… Al trionfo manca la carne, manca il sangue, manca la vita” afferma nell’ultima pagina de “Il mestiere di vivere”. Con i “Dialoghi con Leucò”, Pavese credeva di aver fatto una cosa che poteva durare molto più nel tempo. Qualche cosa di straordinario. Riprende tutti i temi: l’attesa, l’amore, l’amore e la morte, l’illusione, la speranza, gli incontri.

Ma  un certo giorno Pavese prende la valigia e invece di andare alla stazione, si ferma 150 metri prima, all’hotel Roma, e si ferma in una stanza e muore nella notte, lasciando solo un biglietto dove dice: “Chiedo perdono a tutti e perdono a tutti. Non fate troppi pettegolezzi”. E’ un biglietto tremendo per certi aspetti e straordinario. Con la parola perdono, anche facendo l’ultimo passo, è come ancora desiderasse la simpatia totale che aveva cercato per tutta la vita. Non avendo trovato un giorno di simpatia totale va verso il niente, dove non sappiamo che cosa c’è, dove l’ombra prevale. E dice di non fare troppi pettegolezzi. Non bisogna fare troppi pettegolezzi su nessuno, anche se si tratta di un uomo pubblico famoso come uno scrittore. Il pettegolezzo è una delle cose più violente, perché riduce la persona a un pettegolezzo. Chi lo subisce, ne capisce la gravità. Finché lo fa, lo legge sugli altri, va bene. Ma quando tu ti senti ridotto al pettegolezzo che fanno su di te, ricevi una ferita violentissima e ti senti sfregiato.
Non dobbiamo fare pettegolezzi non solo sulla biografia, ma neanche, e ancora di più, sull’opera. A Cesare Pavese sembra  sia mancato, insomma, l’avvenimento capace di rispondere a quella struggente attesa di felicità che il mito esprime in tutta la sua opera, e che non riesce a diventare fatto, accadimento. Pavese non l’ha incontrato, o non l’ha riconosciuto, o forse l’ha solo sfiorato e non è riuscito a farlo diventare da parola carne e sangue, da mito vita reale, come avrebbe voluto, come gli capitava quando rievocava il collegio Trevisio di Serralunga di Crea dove, nonostante la reclusione e la paura di essere scoperto dai nazifascisti, aveva sperato, e così desiderato: “Se fosse vero. Se davvero fosse vero!”

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