SUL RISORGIMENTO: LA PROTESTA DELL’ABATE MARTINO
Le frequenti, e irritanti, sortite di Bossi sul problema del Mezzogiorno, fanno tornare alla ribalta, scatenando anche polemiche su presunti ritorni di sanfedismo, il Risorgimento: è ormai indubbio che l’unità d’Italia sia stata fatta male, e questo è un giudizio storico che non proviene soltanto dai presunti “nostalgici” papalini: sono tanti gli storici che, senza troppi giri di parole, sostengono come l’unità d’Italia sia stata, sostanzialmente, un fallimento. Si è tentato di sovrapporre, a una cultura di popolo fortemente radicata e che aveva avuto nella storia varie modalità per influire nella società, un’ideologia laicista, anticattolica, che la gente del Meridione ha sempre sentito estranea: per questo gli italiani, non solo quelli del Sud hanno assistito solo dai margini ad un cambiamento da più parti definito “epocale”.
Non arrivo certo a sostenere che l’unità d’Italia non si dovesse fare: c’erano ragioni economiche, politiche e sociali che rendevano plausibile tale sbocco… ma fu scelta una strada troppo veloce e, soprattutto, per il popolo del Meridione d’Italia, troppo violenta per realizzarla.
Abbiamo avuto nelle popolazioni meridionali fenomeni quasi da genocidio e, proprio per questo, ritengo che una rivisitazione critica del Risorgimento abbia senso, in quanto gli eventi di allora hanno avuto ripercussioni che durano tuttora: basta citare non soltanto le attuali farneticazioni della Lega di Bossi, a riguardo del Meridione d’Italia.
Possiamo dire che tutto è cominciato il 18 febbraio 1861, quando nel primo Parlamento italiano, Vittorio Emanuele II veniva proclamato re d’Italia: ma, proviamo a domandarci che tipo di parlamento era. Erano da eleggere 443 deputati per una popolazione di 22 milioni di abitanti. Di questi, solo 419.938 avevano diritto al voto (le donne erano escluse da questo diritto!), attribuito unicamente a chi, per censo e istruzione, appartenesse al ceto dei “natabili”. Poco più della metà, però, del già estremamente esiguo numero di elettori, si recò alle urne: non furono che 242.367. Ma i voti validi alla fine si ridussero a 170.567, di cui oltre 70.000 erano di impiegati statali cui il governo stesso autorevolmente “consigliava” per chi votare.
Si capisce perché un Massimo d’Azeglio, che pure di quel Risorgimento fu uno dei più convinti e autorevoli protagonisti, si fosse lasciato scappare: “Queste Camere rappresentano l’Italia così come io rappresento il Gran Sultano turco!”.
Quindi, se le cose stanno così, è abbastanza chiaro cosa significò per i meridionali l’unità d’Italia: l’Italia non poteva certo definirsi uno stato ‘nuovo’, in quanto era divenuta l’estensione politica ed amministrativa del Piemonte, che estese le sue leggi a tutta l’Italia ‘occupata’.
Anche se si voleva una confederazione, un’unione che rispettasse la complessa e diversa storia, e insieme la pari dignità delle varie regioni italiane, di fatto, invece, soprattutto le regioni meridionali si sentirono spesso come colonie africane invase dai “bianchi”, giunti da un Piemonte il cui Re quasi non sapeva parlare l’italiano (il dialetto quando gli era possibile, altrimenti il francese), e il cui primo ministro considerava anch’egli la lingua di Dante come una lingua straniera: quel Cavour che conosceva bene Francia e Inghilterra ma, quanto all’Italia, non volle scendere mai a sud di Firenze.
Da qui un grosso malcontento: i meridionali non capiscono, e non vogliono capire, le nuove imposte, il servizio militare che sotto i Borboni non dovevano fare; i meridionali non capiscono l’Italia, che per loro è incarnata solo nell’esattore delle tasse.
E da qui la protesta… come quella espressa del nostro Antonio Martino, un prete meridionale, un prete liberale deluso.
Antonio Martino (1818-1884) è nato a Galatro e della sua vita si sa poco, quasi niente. Fu sacerdote e liberale, perseguitato perché assertore di libertà, più volte imprigionato e amnistiato dai Borboni.
L’Abate Martino esercitò la sua funzione sacerdotale senza venir meno al suo impegno politico: a Galatro, presso la casa paterna, aveva un camino girevole, dove era solito nascondersi durante le frequenti irruzioni della polizia borbonica.
Ma nel 1866, dopo aver gioito per gli eventi che hanno portato all’unità d’Italia sdegnato per i pesanti tributi imposti dai Piemontesi, scrive il “Paternoster dei liberali calabresi”, dove evidenzia come i mali della Calabria si perpetuano ancora in maniera più pesante con il Regno d’Italia, infatti, amaramente afferma: “…ca di la furca passammu a lu palu…”.
Così si dispera il Martino, troppo si era illuso, troppa fiducia aveva dato, ora si sente tradito e, nella “Preghiera del calabrese al Padreterno contro i Piemontesi” del 1874, scrive:
“Lu pani cu li lagrimi ammogghiamu
e tra sigghiuzzu e chiantu l’agghiuttimu…
e di li fundi nostri cilonari
nui diventammu ed idhi proprietari…”.
L’opera del Martino è molto vasta, interpreta una diffusa opinione popolare secondo la quale i Piemontesi erano la causa dei mali presenti in Calabria. Il Martino raccoglie i motivi della grande delusione, gli inganni della classe dirigente: la sua passione politica è un grido di rabbia unito a un sarcasmo intelligente quanto mordace.
Nei versi dell’abate Martino c’è la protesta secolare della Calabria umiliata e tradita… la grandissima maggioranza della popolazione meridionale si sente del tutto estranea alle nuove istituzioni: si vede soggetta allo Stato e costretta a servirlo con il sangue e con il denaro, ma non sente di costituirne una parte viva e organica. Un dato inquietante, e purtroppo innegabile, è che l’unità d’Italia non è stata fatta sulla lotta allo straniero, non è stata fatta sulla guerra agli austriaci, ma sul sangue del popolo italiano. Stando alla relazione del generale Cialdini, che comandava la terribile repressione, solo nel napoletano le incredibili cifre erano queste: 8968 fucilati, 10604 feriti, 7112 prigionieri, 918 case bruciate, 6 paesi interamente arsi, 2905 famiglie perquisite, 12 chiese saccheggiate, 13629 imprigionati, 1428 comuni posti in stato d’assedio. E da questa tragedia ne nasce un’altra, sino ad allora sconosciuta: l’emigrazione all’estero. Tra il 1876 e il 1914 se ne andarono ben 14 milioni d’italiani: e questo, nell’assoluta indifferenza dello Stato liberale che, anzi, contava sull’effetto “benefico” delle rimesse degli emigrati ai vecchi rimasti a casa.
Questa presentazione è sufficiente per introdurre due tra le poesie più conosciute del Martino: “Il Paternoster dei liberali calabresi” e “La preghiera del calabrese al Padre eterno contro i piemontesi”.
Queste due poesie, da sole, riescono ad offrire la fisionomia culturale delle popolazioni calabresi ed esprimono una coscienza che, pur nei suoi limiti, sa esprimere proposte di autonomie locali e concrete aspirazioni di giustizia e, certamente, non si perde nelle ‘anacronistiche’ polemiche sul Risorgimento esplose nei nostri giorni.
Cosa dire… la rabbia (soprattutto quando sentiamo ignoranti parlare di “Terronia” e di “voler incivilire il Mezzogiorno”) ci porta un pò fuori dal seminato, per questo voglio “lasciar dire” allo “spirito libero” dell’abate Martino, che per delle situazioni piuttosto analoghe, ne “La Calabria a sua Madre Italia” nel 1860 ebbe a scrivere:
“… di li cannuna cchiù no ndi spagnamu,
di li sordati vostri non temimu; …
L’Italia nostra nui rivendicamu,
nenti di rrobba vostra pretendimu;
se vui non la cediti a stu riclamu,
latri f…, nui ndi la vidimu.
Pulitica e dirittu vi mparamu:
comu si fa la guerra mò sapimu,
lu culu se parlati vi spaccamu,
ca orfani e pupilli cchiù no simu”.
La Storia dopo secoli si ripete, gli stessi problemi ritornano sotto altre vesti, e la rabbia di Martino mi fa gonfiare il petto per l’orgoglio di appartenere alla nostra terra.
L’unità d’Italia ci ha relegati ai margini dello sviluppo economico, questo sì, ma di sicuro siamo al centro del pensiero e della cultura!
Il Paternoster dei liberali calabresi sotto la pressione degli ingenti tributi in Dicembre 1866
O patri nostru, ch’a Firenzi stati,
lodatu sempi sia lu nomi vostru,
però li mali nostri rimirati,
sentiti cu pietà lu dolu nostru,
ca si cu carità vui ndi sentiti
certu non fati cchiù ciò chi faciti.
Patri Vittoriu, re d’Italia tutta,
apriti ss’occhi, ss’aricchi annettati:
lu regnu vostru è tuttu suprasutta,
e vui, patri e patruni, l’ignorati.
Li sudditi su’ tutti ammiseriti:
vui jiti a caccia, fumati e dormiti.
Ministri, senaturi e deputati
fannu camurra e sugnu ntisi uniti,
prefetti, cummessari e magistrati
sucandu a nui lu sangu su’ arricchiti.
E vui patri Vittoriu non guardati:
vui jiti a caccia, dormiti e fumati.
Cummessi e cancelleri di preturi,
prùbbica sicurezza e abbocati
e speciarmenti li ricivituri
a tutti ndi spogghiaru e su’ ngrassati.
E vui patri Vittoriu li viditi:
vui jiti a caccia, fumati e dormiti.
Sindaci, segretari e salariati
e cunsigghieri tutti e assessuri,
su latri cittadini patentati:
su idhi li judei, nui lu Signuri!
E vui patri Vittoriu li viditi,
e jiti a caccia fumati e dormiti.
A l’esatturi, poi, lupi affamati,
uh, lampu mu li mina e mu li cogghi,
li roli mu li strazza a mudhicati,
ca quantu furti, frodi, quantu mbrogghi!
E vui patri Vittoriu vi scialati,
e jiti a caccia, dormiti e fumati.
L’agenti di li tassi su’ na piaga
cancarenusa supa a lu vidhicu,
sempi la pinna loru scrivi ‘paga’,
e di li murti loru nenti dicu…
E vui patri Vittoriu non spijati…
Dormìstivu? Mò jiti e caccijati!
E di li sù notara chi cuntamu?
La pinna loru è lanza di langinu,
uh, poravedhi nui si stipulamu:
notaru oji dinota ‘latru finu’,
tariffa loru è sulu lu capricciu.
Patri, pacenzia, ca mò vi la spicciu,
posati ssu ddubbotti e rifrettiti,
jettati chissu sìcaru e sputati,
guardati chisti piaghi ca ciangiti,
e canusciti tutti li mpiegati.
Certu, si vui guardati, aviti a diri:
mannaja lu fumari e lu dormiri!
E vi accorgiti ca regnati in guerra,
odiatu di lu celu e di la terra.
PANEM NOSTRUM
Lu pani ndi strapparu di li mani,
lu pani nostru, o patri, e mò languimu,
simu trattati peju di li cani,
pagamu supra l’acqua chi mbivimu.
La curpa èni ca fummu liberali;
l’Italia fatta ndi portau sti mali!
Pacenza… Mò mparammu ca lu mundu
prima t’alletta e poi si mustra ngratu,
ch’è vasu duci ncima, amaru in fundu,
ch’è fàuzu e tradituri d’ogni latu…
E chistu spega lu tempu presenti,
peccùi di ricchi sciurtimmu pezzenti.
Pezzenti pe fundaria e manimorta,
pezzenti pe cunguagliu dupricatu,
pe prèstiti forzusi ed ogni sorta
di pisi, ch’ogni riccu hannu stancatu.
Et quia venturi sunt fabbricati,
lu daziu su li porci e su l’entrati.
Pezzenti, e si pretendi di pagari
lu daziu di cunsumu già appardatu,
li murti, supraimposti, ed autri affari
chi già Scialoja nostru ha progettatu.
Si parla di finestri, ciucci e cani,
daziu di furnu, di pili e di lani.
La mobili ricchezza sbrigonata,
e lu registru cu la murta e senza,
marchi di bullu, la carta bullata,
la posta chi ndi suca e non si penza,
tabaccu caru, carissimu sali:
patri Vittoriu, pe bui tanti mali!…
Finimu cu li pisi e li misuri,
lu decalitru, vilanza e statìa,
lu metru, pisi grossi e li minuri,
la revisioni ogni annu… uh, porcarìa!
Patri, cuntempra tu chist’orazioni
et ne nos inducas in tentazioni:
ca di la furca passammu a lu palu,
sed libera nos a malo.
AMEN
Cchiù suffriri non potimu,
caru patri, riparati!
Ca si nui ndi annichilimu
di st’Italia chi ndi fati?
Fussi regnu di lu nenti
e vui re di li pezzenti,
e tornamu in giografia
zeru e nenti e così sia.
La preghiera del calabrese al Padre eterno contro i piemontesi, nel 1874
Signuri, chi dormendu vigilati
e tutti li segreti canusciti,
chi senza testimoni giudicati
e premi e peni, tardu, cumpartiti,
chi siti vecchiaredhu e non tremati,
eternu sempr’in celu e non moriti,
ssi pili, ntra ss’aricchi, mu sciuppati
è tempu, e li preghieri mu sentiti:
lu vostru Cristu e tutti li cristiani
su’ mpaticati di li porci e cani.
Fortissimu, di nudhu vi spagnati:
guappi, guappotti, bravi e mascansuni,
scherzandu, cu na mani, ammattulati,
comu tropianu ammàttula cuttuni.
Teniti senza paga, pe sordati
li gridhi, li ranocchi e muscugghiuni,
e chisti, appena n’occhiu nci ammaccati,
darrùpanu nabucchi e farauni.
Eppuru ntra l’Italia siti nenti:
derisu vui, la Chiesa, i sagrarnenti.
Calaru di Piemunti allindicati,
na razza chi mangiava dhà pulenti
e di Netali e Pasca dui patati.
Iestimaturi orrendi e miscredenti
e facci tosti e latri cedulati,
superbi, disprezzanti, impertinenti,
sèdinu all’umbra e fannu tavulati
cu li suduri chi jettamu ardenti.
E di li fundi nostri cilonari
nui diventammu, ed idhi propetari.
Di cannavedhu vìnnaro vestuti,
scarpi ammuffati, robba di becchini:
mò di castoru, e vannu petturuti,
cu stivaletti a moda li cchiù fini.
Calaru ccittu ccittu, ntimuruti
e virgognusi comu fanciullini:
nchi vittarti a nui, manzi ed arricchiuti,
apriru nasca e isaru li cudini,
e cui ndi chiamau « locchi» e cui « nimali»,
e ndi ncignaru a fari servizziali.
Guardaru in prima misa l’olivari,
l’agrumi, li vigneti e mandri e frutti,
e disseru fra loru: «Nc’è di fari!…
ccà nc’e di beni mu ngrassamu tutti».
E sùbitu si misàru a sciancari
a schiatta panza, ad alleggiari gutti,
poi dazi senza fini a mmunzedhari
pe comu s ‘ammunzedha ligna rutti,
e pe dicchiù «li schiavi cunquistati»
ndi chiamanu, li facci d’ammazzati.
Già li famigghi ricchi impezzentiru,
li pòvari su’ sicchi pe la fami,
l’argentu e l’oru tutti lu periru,
e scumpariu di nui finna la rami.
L’impieghi fra di loru si spartiru,
ficiaru schiananzia di lu bestiami:
gadhini ed ova e pasta l’incariru,
lu ranu, vinu, pisci e la fogghiami.
Non pensan’autru ch’a mangiati sulu:
mu fannu bonu chippu e grossu culu.
La santa castità la currumpiru,
su’ all’ordini del giornu li pansati;
li religioni tutti l’abboliru,
cummenti e monasteri profanati.
Li chiesi nostri quali li chiudiru,
quali su’ stadhi, e quali su’ triati,
l’enti morali tutti supprimiru,
li beni sagri tutti ncammerati;
la carità fraterna cundannata,
la povertà, si cerca, carcerata.
Li sacerdoti chiamanu imposturi,
li statui trunchi di arburi pittati,
a la Madonna fannu tant’ingiuri,
li santi pe’ briganti su’ trattati.
Non vonnu festi, nè predicaturi,
vigìli e santi jorna disprezzati,
spijuni dinnu ch’è lu confessuri,
li setti sagramenti, poi, nchiastrati.
Ah, sì, d’Italia e sua consorteria
parlava lu profeta Geremia.
Signuri, vui nci siti, e nui cridimu,
e sutta stu fragellu vi adoramu,
peccati cu li sarmi, sì, nd’avimu,
ma sempri a vui fidili e stritti stamu.
Diciassett’anni sugnu chi ciangimu,
lu pani cu li gràlimi ammogghiamu
e tra sigghiuzzu e chiantu l’agghiuttimu:
cercamu a vui succursu e peju jamu.
Suffritimi, Signuri, nu mumentu,
mu sfocu di stu cori lu turmentu.
Sapiti ca vi simu crijaturi,
perciò vi parlu franco, in cunfidenza:
simu arrustuti, e a menzu a li doluri
perdimmu lu curduni e la pacenza.
Non promettiti vui, ntra li Scritturi
ca siti occhiu amurusu e providenza
pe cui vi servi, e di li peccaturi
ca fati mu si perdi la simenza?…
Vi chiamu a la palora, non mancati,
ca siti via diritta e veritati.
Lu fùrmini, lu tronu, ntra su pugnu,
su’ l’armi vostri di l’eternitati;
lu caddu di giugnettu, agustu e giugnu,
la nivi di dicembri dominati;
tempesti, e lu levanti cu lu ncugnu
non siti vui chi spissu li mandati?…
Cannuna e bajonetti chi mai sugnu,
rimpettu a sa tremenda majestati?…
Ebbeni, mu struggiti chi nci voli
si figghi di puttana, si marioli?
Giustizia voli pemmu li puniti,
l’onuri vostru mu li scuncassati,
e si riguardu a vui li cumpatiti,
l’ingiuri a la Madonna vindicati,
la vostra santa Chiesa risurgiti,
lu sagru cultu vostru rianimati.
Nui tutti ntra nu zàccanu cogghiti
e vui, durci pasturi, ndi guidati.
E allura riverenti vi cantamu
lu ‘tantumergu’ e lu ‘tedèu lodamu’,
e rispundendu «ammèn» li cristiani
lu segristanu sona li campani.
Molto interessante la figura dell’abate Martino. Mi piacerebbe avere il suo testo nella mia libreria.